Madrefiglia

( E parlavo alle bambole...)

Cronos evira Urano suo padre
e inghiotte i figli
tenendoli vivi dentro di sé.
(Esiodo, Teogonia)

La scena
Una stanza vuota. Uno specchio che da una parete laterale può ruotare fino a novanta gradi, consentendo con il riflesso dell’Attrice lo sdoppiamento e la rievocazione, e il suggerimento di ambienti.

Il costume
Elementi sovrapposti di cui l’Attrice possa vestirsi e svestirsi; qualcuno tra questi — la giacchetta — va sostituito, una volta tolto, con materiale commestibile.

La madre è a terra rinchiusa su se stessa, le braccia intrecciate come se tenesse un neonato così strettamente da non mostrarlo.
Si dondola cullandosi.
Nel silenzio comincia a salire dalla bocca della donna un suono leggero, tra il sospiro e il lamento, un vezzeggiare, poi una ninna nanna.
Seguendo il ritmo del dondolio comincia a parlare.

MADRE «Con me... Con me... sempre sempre... con me... con me... Con me... sempre sempre... con me... con me... con me... sempre sempre... con me...”.
Non ti aspettavo ancora, e desideravo che tu nascessi. Lui no: forse un maschio: ma poi... ma quando?, non voleva problemi. Poi ti aspettavo, e zitta, non gliel’avevo detto: «Così quando lo scopre non può più opporsi...». Tardi notò che mi ero fatta grossa: tu eri là, dentro di me...

Indica il ventre aprendo le braccia, che non abbracciano che lei stessa.

... ed eri femmina!, lo sentivo, non mi sbagliavo, allora non si facevano esami, ecografie... me lo diceva il cuore, e una vecchia che sapeva il futuro me l’aveva predetto: «Femmina avrai / con lei sempre starai / figlia madre / unite senza padre...». A lui non rimase che sperare nel maschio, «almeno fosse un figlio maschio...». «Maschio, maschio»: mi ossessionava con quella parola, minacciandomi se non gli avessi fatto il maschio... E io zitta, godevo della rabbia che gli avrei dato quando nascevi. A dargli la notizia fu mia madre; era contenta anche lei che tu fossi venuta a proseguire la linea delle femmine nella famiglia, e lui... — mia madre me lo raccontò infinite volte —, lui stava facendosi la barba, e il rasoio gli entrò nella pelle dalla pressione che per la rabbia la mano gli impresse-, si fece un taglio profondo e il sangue non si fermava più, imprecava per la femmina che gli era nata e imprecava per lo sfregio, che si sarebbe portato per tutta la vita... Non ti volle vedere, e io, appena potevi capire le mie parole, appena hai cominciato a distinguere dal presente il passato e il futuro, allora ti raccontavo quella scena come mia madre me l’aveva descritta. Non era neanche venuto nella stanza dove mi avrebbe trovata nel letto tutto ricami, preparato per l’evento, fra le mie braccia te già lavata, nelle fasce, rosa come una rosa, urlante, prepotente, femmina: non aveva voluto riconoscere che eri sua figlia, e che era tuo padre... Ma io non gli ho rinfacciato la mancanza: avevo te, eri mia, soltanto mia, finalmente non sarei più stata sola...

Riporta le braccia intorno al seno. Si dondola ritmicamente, accompagnando il movimento con dei suoni leggeri, fino a sfociare nella ninna nanna.

«Con me... con me... sempre sempre... con me... con me... con me... sempre sempre... sempre con me...».
E avevo paura di perderti!... Che lui ti facesse del male o che, d’un tratto, si scoprisse padre follemente innamorato della figlia... Geloso, mi accusava di dedicarti tutto il tempo, trascurando il marito perfino nei rapporti coniugali: era vero, non vedevo più in lui il naturale oggetto del desiderio; mi contrastava nella mia maternità, frapponendosi fra me e te, e tentava con manovre maldestre di riportare solo a lui ogni attenzione. E poiché sempre di più al contrario io mi attaccavo a te come unica ragione di vita, a un certo punto se ne andò. Si fece vittima, raccontò agli amici che l’avevano cacciato di casa, che tutte le donne, anche mia madre, s’erano messe contro di lui. Dicesse quello che voleva, tirammo un sospiro di sollievo: finalmente non stava più a spiarci, criticando ogni nostra decisione, creando disagio con la sola sua presenza, livido, invidioso della nostra alleanza. E per un po’ ce ne siamo state così bene, io e te! Era morta poi mia madre; dopo un momento intenso di dolore, di vuoto — il senso fisico della mancanza —, poi mi sono sentita libera e padrona di te, lei ti dava dei vizi, a me diceva «devi fare questo devi fare quello», perché seguissi il «suo» modo di allevarti, come — diceva — aveva fatto lei con me. Si metteva in competizione con me per bisogno di amore, era sola perché anche mio padre l’aveva lasciata, era sola e piena di voglia di comandare, se c’era lei io diventavo bambina... Bambina ero con te, per giocare, per parlare con te, ma io e te soltanto, quando lei non c’era più... E ogni tanto si affacciava nella mia vita qualche innamorato; ma io lo lasciavo fuori dalla porta, non volevo che nessuno prendesse il posto che tuo padre aveva abbandonato, un altro a comandare sarebbe stato peggio.
Ci godevamo insieme la pace dei giorni conquistati, come due brave sorelle, io mi inventavo ogni sorta di trucchi colorati per farti divertire, tu volevi imitarmi, il rossetto scuro ti disegnava le labbra facendoti grande; nel tuo viso riscoprivo me stessa anni prima, persa dietro ai sogni, ingenua fino a credere di poter amare un uomo solo; nell’alba dei miei primi anni ero immersa in queste fantasie, innamorata del commesso del droghiere, del postino, del vecchio calzolaio, e parlavo alle bambole, sicura che avrebbero preso a respirare se almeno uno di quei segreti amanti mi avesse dato un bacio. Ma nessuno si era fatto avanti, e io li andavo sostituendo con altri, sperando sempre nell’evento magico; forse il controllore che bucava i biglietti in treno quando con mamma andavamo fuori in gita... oppure il prete che cantava dal pulpito, biondissimo nel riverbero del sole... Nessuno entrava mai nel mio segreto, le bambole restavano mute... Bambola viva, tu parlavi, ridevi; le labbra disegnate dal rossetto mi annunciavano che stavi diventando una ragazza. Nel cambiamento mi ero illusa che saremmo state ancor più simili, e avresti capito se ti dicevo che mi piaceva un uomo; l’ansia di accudirti in ogni ora della mia giornata, come avevo fatto finché eri piccola, si distendeva in quel clima di dolci confidenze che sfociavano nelle nostre fantasie.
Crescevi, non potevo permettermi di guardare un momento qualcuno che non fosse mia figlia. Se ne andavano gli anni, me ne accorgevo guardandomi allo specchio. Ero bella? Bella ancora per poco... Non volevo un marito, ma un uomo che mi facesse ricordare di essere donna... Te ne parlai come a un’amica, pensavo che avresti riso chiedendomi «com’era»; invece sei rimasta muta come le mie bambole; muta e con una ruga dritta sulla fronte. «Se ti va», hai poi detto scrollando le spalle e sei scappata via. Hai cominciato a rifiutare il cibo; vomitavi quel poco che prendevi se insistevo, l’ho scoperto perché a rotoli la carta igienica spariva in bagno, ti ci chiudevi e restituivi nel water quanto avevi inghiottito; pulivi, con minuziosa lentezza, inginocchiata accanto alla tazza.., ti ho spiato un giorno che non ti vedevo più venir fuori, confusamente collegavo quel consumo dei rotoli con le tue assenze e il tuo diventare più magra e taciturna. Cominciai a darti da mangiare solo quei cibi che mi pareva continuassi ad accettare, in ore insolite della giornata, non in rapporto ai pasti, e non li vomitavi. Una tazza di latte, del tè caldo; zucchero ne volevi molto, e qualche frutto; ma sempre più limitavi tra le offerte quello che ti andava di accettare. Mele, fette rotonde: più che masticarle, ne assaporavi il gusto sciogliendole piano in bocca; negli occhi ti passava uno sguardo infantile; tutto il tuo volto pareva ritornare indietro di quei tuoi pochi anni, piccola piccola, senz’altri desideri che quello di succhiare il mio latte, soddisfatta di questo nutrimento e del contatto che ti univa le labbra al mio seno, creatura unica lontana dal domani che avrebbe portato al distacco... In quel sopore in cui poi tu piombavi, ti riprendevo tra le braccia, ti cullavo, eri di nuovo mia.

Assume l’atteggiamento della madre cullante. Sussurra.

«Con me... con me... sempre sempre... con me...».
Dimenticavo in quei momenti che mi aspettava un uomo per il quale rischiavo di perderti: lui mi accettò per mesi e mesi con pazienza, ma i nostri incontri erano turbati dall’angoscia per te, dal tuo distruggerti; ti vedevo mentre lo abbracciavo: vomitavi fino a sfinirti, un fiume di carta si sdipanava bianchissima invadendo lo spazio, non godevo più di quel rapporto che all’inizio mi sembrava incantevole, e non volevo spiegare il tuo stato a quell’uomo, per pudore, con dolore. Finì pian piano, gli incontri si fecero sempre più radi fino a cessare, senza traumi, con rassegnazione. Le mie attenzioni tornate tutte a te ti fecero tornare allegra e forte, eri di nuovo affamata, come tutte le ragazze alla tua età; i rotoli nel bagno duravano giornate, la quiete in casa era tornata, e tu studiavi per la maturità.
Dei compagni preparavano gli esami con te, andavano e venivano, ragazzi e ragazze, a tutti offrivo la merenda. Un po’ per volta non li ho visti più; ne veniva soltanto più uno, sempre lo stesso, i libri sotto il braccio, quaderni e taccuini infiniti: serio, preciso, segnava nelle pagine i passi più importanti, ripassavate insieme; vi alternavate nelle domande, ma era lui quasi sempre a decidere che cosa si doveva studiare, il tempo come suddividerlo, gli scritti e le lezioni, latino, greco, matematica, filosofia.., osservavo non vista, dal terrazzo, o passando silenziosa. Tu senza accorgertene ti sei innamorata. Quel ragazzo così pratico, attento alla logica, ti attraeva per contrasto; gli eri sottomessa, devota... Eravate una coppia, la stessa età, gli studi insieme, le prime prove della vita. Vi invidiavo, io questa esperienza non l’avevo avuta... Cercavo di immedesimarmi in te, e trattavo lui come un figlio...
Una sera siamo andati insieme in discoteca; avevate insistito che venissi anch’io con voi, ero curiosa di quell’ambiente che non conoscevo, e non sapevo cosa mettermi, da tempo non mi preoccupavo dei vestiti... Tu mi hai dato una tua minigonna, mi andava benissimo, i miei fianchi erano appena un po’ più tondi; e le gambe, me le guardavo allo specchio, l’imbarazzo di vedermele scoperte fino sopra il ginocchio... Poi sento un fischio, non c’è dubbio è di ammirazione, mi volto, è il tuo ragazzo, mi strizza l’occhio... Rido, perché scopro di avere delle belle gambe e chi me lo fa notare è un coetaneo di mia figlia... Tu ti metti dei blue-jeans tutti strappati e tutti e tre andiamo in discoteca. C’è buio e luce a tratti, come schiaffi, rumore, confusione.., ragazzi e ragazze, centinaia vagano soli, poi si uniscono a gruppi, urlano accalcati ai tavolini, tengono in mano bicchieri di carta... Sono spinta su una pista bombardata da luci intermittenti... Ballano da soli, tutti si muovono con gli occhi perduti dentro dì sé; così faccio anch’io... Poi mi raggiunge il tuo ragazzo, mi gira intorno, mi fa volteggiare... Non so se per una cortesia — sono tua madre — o perché gli piaccio... Altri si uniscono, mi inseguono nel breve spazio lasciato libero da quelli che ballano... L’imbarazzo è scomparso, mi diverto, mi sento libera, senz’altri pensieri che di godermi quel momento... Ti intravvedo fuori dalla pista, imbronciata, poi te ne vai con un altro ragazzo, ballate stretti, qui non lo fa nessuno, capisco che ti ha urtato qualcosa, esco da quella gioia passeggera, torno ad essere tua madre, mi ricompongo, vado a sedermi, poi alla toilette per pettinarmi, e ti trovo là dentro, vomiti nel lavandino, di nuovo come anni prima... Mi spavento, ti tengo su la testa, hai la fronte sudata, ti divincoli, non vuoi, ma poi cedi, ti abbandoni e allora piangi, di rabbia, di stanchezza, di delusione, forse... Ce ne andiamo, il tuo ragazzo non ci chiede niente, silenzio in macchina, fino a casa... Non è venuto più da noi, quel tuo compagno; io non ti ho chiesto niente, intuivo che non volevi parlarne, mi rattristava pensare che ero stata la causa, in qualche modo, del distacco, a me non era importato di lui come uomo, ma scoprire che esistevo come donna. Mi bastava, preferivo restare lontana da legami maschili; era rimasta dentro di me una ferita, un senso di carne lacerata, meglio dedicarmi tutta a te. E una notte, tempo dopo, ti sentivo camminare inquieta; nel buio ti ho chiamato, sei venuta nel mio letto e mi hai detto «L’ho lasciato, non volevo finire come te»: era la libertà che tu volevi conservare delle tue decisioni future, quella frase non mi ha offeso. Ti ho abbracciata senza dire niente e ti sei addormentata accanto a me.
Eravamo di nuovo sole, contente della nostra solitudine. Giorni affaccendati, tu lo studio io dedicarmi a te. Sei stata promossa, potevamo finalmente goderci la bella estate e siamo andate al mare... Avevamo comprato due cappelli, di paglia, grandi, con dei fiori sopra, a guarnizione, tenuti da un nastro. Fiordalisi e spighe sul tuo, spighe e papaveri sul mio... Ci guardavamo nello specchio ed eravamo identiche, diverse soltanto per quei fiori... Specchiandoci l’una nell’altra, ridevamo per quella somiglianza, che rendeva me fiera per l’età dimenticata e tu tenera per tua madre ragazza. Era un mondo destinato a durare pochissimo, come la corte allegra dei ragazzi della spiaggia: ci metteva a confronto, era un gioco che accettavamo per ridere. «Quello che fai tu posso farlo anch’io... Quello che faccio io lo puoi fare anche tu...». Vita diversa di vacanza, accettata perché breve. Tornate a casa, era tutto come prima, e gli uomini, nessuno scalfiva la nostra alleanza. Andavi all’università, telefonavano i compagni, i nuovi amici che stavi facendoti. Tra noi c’era un’intesa, potevi frequentarli fuori, a casa non li volevamo; se anche c’eri, a chi telefonava dicevo che eri uscita; se mi parlavi di loro, anche dei più simpatici, alla fine saltava fuori qualche cosa che non te li rendeva degni di diventare tuoi compagni. Mi piaceva quel tuo modo di riflettere senza farti coinvolgere, mi ripagava di quanto avevo patito per ingenuità.

D’improvviso tace.

Perché poi tutto è cambiato? Erano tuoi metà dei vestiti che indossavo, mescolandoli ai miei; facevi così anche tu con le mie gonne, e i golfini, le camicette, gli stivali...

Si spoglia con furia di qualche indumento. Getta a terra i pezzi con rabbia crescente — una giacchetta, una gonna, qualche altro elemento, rimanendo in pantaloni aderenti.

Tu non volevi più!, gelosa di quello che era tuo! E conservavi tutto nei cassetti, ben divisi dai miei, non capivo perché! Ti ho seguita, fuori, senza che tu te ne accorgessi. Avevi un uomo! Ho sentito una botta allo stomaco, quando mi sono resa conto che non era come le altre volte. Pioveva e me ne andavo rasente i muri. Eri attaccata a lui, per ripararti dall’acqua sotto lo stesso ombrello, non era la pioggia il motivo di quella vicinanza così fatta di calore e di mani intrecciate. Le gocce ti cadevano sopra i capelli, ma tu non te ne accorgevi; tu così attenta a tutto parevi lontana dal tuo corpo, il viso rivolto a quello che parlava, attenta, quieta come non ti conoscevo. Là, nella strada bagnata, sotto l’ombrello di quell’uomo, ti leggevo sul volto un’espressione di felicità. Non aveva l’età di un compagno, forse un tuo professore... Fosse stato pur così, non era per la pioggia che un professore stringe un’allieva in quel modo. Vi superai dall’altra parte della strada correndo per raggiungere un bar; di là vi guardavo arrivare; parlavate tranquilli e mi passaste accanto quasi fino a toccarmi, sul marciapiede; ma tu eri persa nel suo viso, lui era preso nel dire, gli occhi in basso, cercando le parole... Ero sconvolta, non sapevo perché. E cercavo di capire il motivo di quella sorta di rancore, e una tristezza, un vuoto senza fine. Bagnata, infreddolita, sola. Chiesi un caffè. E mentre lo bevevo, mi venne in mente che mio padre lasciava nella tazza poche gocce sul fondo per me, quando gli portavo il caffè dopo pranzo. Poteva essere suo padre, quell’uomo... Per questo gli si era attaccata: lei, mia figlia, il padre non lo aveva avuto. Si era innamorata di un uomo che aveva almeno il doppio della sua età, questo padre senza averne mai parlato lei lo aveva cercato per anni, rifiutando i ragazzi suoi compagni... In un lampo mi pareva finalmente di veder chiaro, e il pericolo, insieme, di quell’incantesimo del padre ritrovato. Quando alla sera sei rientrata in casa, parevi uguale a tutti gli altri giorni. Allora quella storia era già usuale, e non me ne avevi mai parlato?! ... Qualche domanda a tavola, per aprire la strada a raccontare. Forse avevi capito la mia ansia nel chiederti senza chiedere, finito nel silenzio. E ad un tratto hai parlato, come facevi certe volte con me, da bambina, quando volevi strapparti un peso dal cuore. «Ho un uomo — hai detto brusca —, ho un uomo e non te l’ho detto, sono già dei mesi...»: ansimavi per lo sforzo e io non ti aiutavo, stavo rigida ad aspettare, una mia parola poteva essere uno sbaglio. «Non te l’ho detto perché...»: non proseguivi, incerta sulla mia reazione: «Non te l’ho detto e basta». Oh!, perché non ti ho aiutato? Perché non ti ho detto «va bene»? Forse il seguito sarebbe andato in modo differente; non dovrei avere dei rimorsi per quello che è successo e ha avuto inizio da quel giorno. Mi sono resa conto che eri adulta, staccata da me; un essere autonomo che rivendicava i suoi diritti. Non volevi darmi spiegazioni sul tuo comportamento, le tue parole secche mi spaccavano come un coltello. Avvertivo il dolore fisico della separazione, non riuscivo a trovare che cosa avrei potuto dirti perché tu ritornassi indietro. E mentre ti ascoltavo, mi rivedevo con te fra le braccia, come se quella donna che ero stata fosse davanti a me, con la sua bimba, e mi cantava dentro la ninna nanna di quel tempo...

Racchiusa in se stessa, si culla con suoni sussurrati, fino alle frasi ritmate.

«Con me con me... sempre sempre... con me... con me con me... sempre sempre... con me...».
Ma non potevo ripararmi dietro a quell’ombra della memoria, è svanita quando hai gridato «Lo amo, voglio andare a vivere con lui!».

La frase rimbomba ripetuta in un moltiplicarsi di echi.

«Lo amo! Voglio! Andare! A vivere! Con lui! Lui! Lui! Lui!...».
Quel suono si moltiplicava, mi travolgeva. Sei uscita così com’eri. Sei tornata soltanto il giorno dopo, vestita di cose diverse, tue; avevate certo una casa insieme. Era la mia vita che tornava con te, ma divisa; e dovevo giocare d’astuzia, per riaverti ancora, figlia mio specchio, me bambina, giovinezza ritrovata, porta della fantasia, rifugio alla tristezza, tormento dell’affetto, aria del mio respiro...
In quella notte i miei capelli s’eran fatti bianchi; mi guardavo allo specchio, ero un’altra, una vecchia, sopra un abisso che non riuscivo a distinguere nel fondo. E mentre scrutavo quell’immagine, mi sei apparsa dietro, di colpo... Ero io quel viso di ragazza, quella che non ero mai stata, libera di decidere della vita, uscendo dalla casa della madre.., con un padre accanto, quello che non avevo mai avuto, che non avevi avuto neanche tu. Adesso ti eri illusa di averlo, ma ti era amante, non padre: confondevi nel bisogno gli affetti; se te l’avessi detto avresti riso. Mi hai abbracciato senza dire niente, era un modo di chiedere perdono. E pochi giorni dopo mi hai detto: «Te lo porto, voglio che tu lo veda, devi conoscerlo anche tu».
Dentro, ridevo per la contentezza; avevi detto «te lo porto», era il segno di una dedizione: a me, a me tu Io portavi!, non sarebbe stato un incontro qualsiasi, riconoscevi in me il potere del giudizio... Era un bell’uomo, tu te lo guardavi mentre mi parlava sorridendo, con le frasi che si dicono al momento di un incontro le persone che non si conoscono... Io lo scrutavo intanto, dietro i sorrisi. Era un uomo importante, lo deducevo dalla sicurezza con cui pronunciava ogni sillaba di quelle parole di circostanza... Nei vestiti eleganti e trascurati leggevo l’abitudine al benessere, una vita da scapolo, da separato forse.., e la cravatta nuova, diversa, era il segno di un regalo tuo, erano i tuoi colori, il verde e il rosa... Ogni dettaglio di quel primo incontro mi ritorna negli occhi e nella mente... Ti avrei perduto. Te ne andavi. E lui, non era per te. Era il tuo professore della tesi; come non ti accorgevi che si sentiva lusingato, lui quasi vecchio di fronte a te, di sentirsi trattato alla pari, ignorando la differenza di età, la vita breve che rimaneva a lui in confronto alla tua? Non dovevi tu essergli riconoscente per l’attenzione che ti dava, scendendo al tuo livello di allieva; era lui a doverti ringraziare: tu cancellavi il tempo, lo facevi ritornare giovane... Così credeva lui, e forse anche tu. Non era la tua una piccola furbizia di studentessa alla caccia di un voto splendente. Era una storia di ragazza cresciuta senza padre: chiedevi adesso, con i richiami del sesso, quello che non avevi avuto prima, l’affetto di un uomo maturo, una guida del tuo spirito fragile, per quell’abbandono dalla nascita... Soltanto allora, guardando quel signore, mi venivano in mente quei pensieri; prima ero stata orgogliosa della nostra autonomia di donne appagate della loro libertà. Eravamo alleate finché c’era stato un nemico contro il quale rimanere unite: un nemico magari gradevole di aspetto, che ci eccitava nei nostri desideri, preso e poi lasciato in tempi mai troppo lunghi. Infranta adesso quell’intesa tra noi, ogni cosa diventava possibile...
Lui mi guardava. Ero più giovane di quanto aveva immaginato? Parlava con modestia del suo ultimo libro; era a me che si rivolgeva, tu gli stavi accanto appagata di quello che diceva. E in me cresceva l’interesse per lui; mi stupivano i suoi ragionamenti; scoprivo un mondo, in lui uomo, che non era soltanto espressione di sesso. La sera si è consumata in un lampo, ve ne siete andati con il mio rimpianto.
Non eri più la mia bambina, la sorella, l’amica del cuore a cui confidare quello che neppure a me stessa avrei detto, se non ci fossi stata tu, sollecita, a incoraggiarmi a vivere, per te e con te... Adesso eri una donna che voleva una vita sua, che non era la mia. Ma che cos’era, la mia vita? Di lui non mi parlavi mai, avvertivi l’imbarazzo che si veniva creando tra noi. Io mi sforzavo di chiederti di voi, volevo allontanare la rottura... L’hai portato ancora, per una cena a casa, di nuovo lui parlava sommessamente di libri, di paesi lontani; ma non erano le cose che diceva ad attrarmi, era la voce che non si incrinava.., e dava figura alle parole. Mi lasciavo andare a quella sensazione, poi me ne ritraevo: c’eri tu, mi pareva di rubare...
Per mesi andò avanti così. Eludevo il discorso che te ne andassi; lo temevo, ne avvertivo l’urgenza, tu lo volevi, non so se fosse tua la decisione o vostra comune volontà. Era diventata un’abitudine che lui venisse a cena, mi pareva che lo desiderasse, tu non l’avresti mai contraddetto, per amore?, per paura di perderlo?... Ma come potevi perderlo? Non c’ero che io, in quegli incontri che occupavano tutte le serate... Potevi esser gelosa di tua madre?! Eppure, tante gentilezze, e discorsi, scherzosi, forse allusivi, mi insinuarono la possibilità che potesse essersi innamorato di me! Forse si era stancato dell’avventura con l’allieva: una ragazza alla fine è ingombrante, una donna ti crea meno problemi... Questa storia mi attirava come un frutto proibito; mi dava il capogiro, un’ebbrezza che stordiva il mio cuore disabituato ai sentimenti e mi faceva apparire esaltante l’idea di un marito, di un compagno per condividere svaghi e interessi, feste e compagnia, senza pesi di figli e i sacrifici di un matrimonio giovanile. Avvertivo il piacere della caccia spietata, primordiale, di rubare la preda a un’altra donna, come la selvaggina dalla bocca di un leone inesperto, da parte di un vecchio capoclan...

Si mette le mani alle tempia comprimendosi il capo.

Le azioni sono sassi, rotolano trascinandoti. Agivo dietro un ordine.

Intreccia le braccia come se tenesse stretto un bambino.

«Con me con me... sempre con me... sempre sempre... sempre con me... con me con me... sempre sempre... con me...».
E tornavo al ricordo di te piccola... La rivale eri tu veramente? Perché intanto lui si era messo tra me e te. Ci incontrava tutte e due, separatamente. Mi era venuto il dubbio che tu lo sapessi. Avevi accettato il gioco pensando di far contenta tua madre e lasciarle il campo libero per le sue digressioni intellettuali?; lui era maestro nell’affascinare, tu poi l’avresti avuto dopo, per ben altri giochi... Ma non era così. Me ne accorsi quando un giorno mi invitò fuori, per colazione; tu dovevi essere con noi, ma avevi un esame, con attese interminabili per il tuo turno; non potevi a quell’ora, ma l’incontro era stato deciso, lui non volle rimandare, nella precisione degli impegni si ostinava a non cambiare mai ciò che già era stato deciso. Libera dal problema dei cibi — se invitavo dovevo preparare —, ero felice di godermi una vacanza, e pur non confessandomelo provavo piacere di non averti con noi, a controllare, a giudicare di ogni nostra piccola reazione. Dopo mangiato lui mi disse, «Andiamo a casa mia, per un caffè». Non ero mai stata da voi. C’erano in quella casa vestiti miei, che non ricordavo, vecchi di anni, che avevi conservato. Un tuffo al cuore. Scherzando lo dissi, per celare il turbamento, e afferrato un abitino rosso nell’armadio, lo mostravo ridendo a lui, «Indossalo! », disse. Mi guardava al di là della porta riflessa nello specchio: «Sembri lei»; poi venne avanti, mi strinse fra le braccia. Ero te? Ero io che lui voleva? Era un gioco? Forse anche lui era stato affascinato da quel gioco. Poi sei arrivata tu, trafelata, gridando il tuo trenta e lode dalle scale. Non ti accorgesti di me, che in fretta mi rivestivo. Scappai via, presa dal rimorso per il peccato non commesso ma anelato, divenuto finalmente chiaro rispetto al confuso sentire precedente. Quanto poi tu sei tornata a casa, mi ha stupito il tuo tono tranquillo; dubitavo che mi prendessi in giro. «Sei scappata... Perché? Da tanto tempo volevamo invitarti da noi...» mi hai detto con naturalezza. «Ho fatto il più presto possibile a sbrigarmi dall’università.., e tu te ne scappi appena arrivo... e mi lasci il vestito strapazzato...». Sapeva tutto. Sapeva ed era tranquilla. Tu eri d’accordo che mi portasse lì da voi.., per aspettarti e festeggiare insieme il tuo successo.., oppure luì giocava con noi due un rapporto sdoppiato di amanti... Cercavo di capire, mentre parlavi. Forse lei gli ha raccontato dei nostri giochi allo specchio, degli abiti che sceglievamo sempre simili, e la frase a noi cara, che ci univa: «Quello che fai tu, posso farlo anch’io.. Quello che faccio io, lo puoi fare anche tu...» Si era insinuato lui, fra noi come un coltello. E tu ci stavi. Era forse un modo per te di sostituire la nostra antica unione, l’affermazione della tua indipendenza, e il bisogno di continuare a dipendere. Il nostro gioco non poteva coinvolgere nessun’altro oltre a noi. Un terzo ne avrebbe scomposto l’armonia. «Lascialo!», ti ho detto d’impulso. «Non fa per te, saresti infelice! ». Hai riso sprezzante, come se ti avessi mentito per rubartelo.

L’attrice si sdoppia nella madre e nella figlia, entrando e uscendo dai due personaggi che entrambi le appartengono.

FIGLIA Non fa per me?! Pretendi di saperlo tu che hai sbagliato tutto con gli uomini!
MADRE Ricordati che ti ho dato la vita!
FIGLIA La vita! Per tenermi legata a te, per darti un motivo di esistere!
MADRE Potevo abortire!
FIGLIA Se abortivi io non sarei nata, sai che perdita! per vivere da schiava, «sempre con te, con te sempre con te» in un carcere di cristallo senza una vita veramente mia!
MADRE Tutto questo lo dici adesso, perché vuoi stare con quest’uomo. Potrebbe essere tuo padre! Non fa per te, c’è qualcosa in lui che non mi piace...
FIGLIA Qualcosa che non ti piace in lui?! Ma guarda! Non ti piace qualcosa! Che mi lasciasse però ti piacerebbe! Sarebbe allora quello che va bene: per la tua età, nessuna differenza!
MADRE Per lui tu sei la prova che è rimasto giovane, una figlia, andarci a letto per scommessa: Lascialo! Lo lascerò anch’io! Torniamo alleate, non l’una contro l’altra! Insieme contro!

La madre intreccia le braccia sul petto. Riprende a piccoli suoni, poi con la ninna nanna, il canto e il cullare ritmato.

«Con me con me... sempre sempre... con me... con me con me... sempre sempre... con me...».

Di scatto apre le braccia. È di nuovo la figlia. Una violenta risata.
FIGLIA Eravamo d’accordo, io e lui! «Lusingare la vecchia»! E poi
scappare!
MADRE No! Lo credevi tu! Passata la prima infatuazione per te non provava più amore, ma il sentimento di un padre per la figlia!

Si raggomitola in se stessa, riprende la ninna nanna, per poi mutarla in una atroce litania. Rivive l’azione agita.

MADRE Per amore ti ho tenuto. Ti ho aspettato con amore, ti ho cresciuto nell’amore, ho vissuto d’amore insieme a te... Il nostro universo era perfetto, non aveva bisogno di uomini. Un uomo ha infranto questo mondo di cristallo e ci ha messo l’una contro l’altra. Non permettiamogli di decidere chi scegliere e chi rifiutare. Lasciamolo! d’accordo tutte e due! Torniamo alla nostra alleanza!

Silenzio.

Non rispondi! Non mi dici niente! Non vuoi. Credi di riuscire a tenertelo tu? Non esserne tanto sicura! Se non lo lasci come ti propongo, guarda che puoi perderlo ugualmente! Conosco dei modi per attrarlo che tu non sai... Ma... io non posso andarmene con lui. Ti perderei. Un uomo in cambio di mia figlia... Patirei la vendetta su me stessa. Non me ne andrò con lui, se tu rinunci.

Una risata derisoria invade lo spazio moltiplicata dall’eco. È il sentimento della figlia ribelle al discorso della madre.
La madre raccoglie la giacchetta che si era tolta in precedenza; come se fosse la figlia.

Questa è la tua risposta? Non vuoi lasciarlo. Sei sicura che ti voglia perché con te rivivrà la giovinezza. Se ti lascio andare, molto presto scoprirai la delusione. Da padre ti comanderà, come amante sarà succube ai tuoi ordini, non ci sarà amore tra di voi. Io ti perderò, ma il mondo perderà te.

Tira fuori un coltello.
Comincia a staccare pezzi dalla giacchetta e a inghiottirli.

Io ti ho fatta, io ti riprendo, così capirai quanto ti amo. Carne della mia carne, ritorna dentro di me. Sangue mio versato nell’aprirti la strada della vita... Sangue tuo per ritornare nel buio alla tua origine... Nello specchio io sarò te... Dentro di me tu sarai me... Comunione del corpo comunione dell’anima... Così tu capirai quanto ti amo... Stacco di tempo breve fra la mia venuta al mondo e la tua... Tu sei già nell’eterno... Tra poco anch’io ti seguirò...

Terminata l’intera operazione attraverso cui ha fatto a pezzi la giacchetta e se l’è mangiata, si pone nella posizione fetale, raggomitolata.

Oh, potessi anch’io ritornare a mia madre! Nessun luogo è più sicuro, nessuna intesa più completa.

Si dondola. Il canto è ritmato su balbettii, piccoli suoni infantili, fino al silenzio e all’immobilità.
FINE

indietro