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La favola metropolitana di Maricla Boggio in scena alla Sala Uno di Roma
13 MARZO 2013
Enrico Bernard

Mettiamo che i poveri di Zavattini e De Sica, capitanati da un angelo sceso dal cielo o <nato sotto un cavolo> come Totò il buono, una volta decollati con le scope per lasciarsi dietro letti di cartoni e baracche di lamiera, giungano veramente in quel luogo di sogni e di umanità realizzata dove <buongiorno vuol dire ancora – è una battuta del film “Miracolo a Milano” del 1952 – buongiorno>. La metafora ideologica ammantata di favola di Zavattini non offriva una reale possibilità di riscatto, lasciando tutto come in sospeso nella dimensione onirica: i “Ladri di biciclette”, il film del 1948 dello stesso duo Zavattini-De Sica, dopo solo cinque anni non solo non avevano ancora trovato una via di uscita dalla miseria e dalla disperazione, ma addirittura, se volevano sottrarsi alla loro condizione, non avevano altra scelta che volarsene via, forse all’altro mondo, oppure all’estero. La critica marxista pensò al paradiso dell’Unione Sovietica, quella conservatrice l’eden del capitalismo americano: il che assicurò comunque al film una rissa ideologica con accuse di ipocrisia e qualunquismo da tutte le parti, da destra e da sinistra.
Al genere della <favola metropolitana> costruita da Zavattini coi romanzi “I poveri sono matti” (1937) e “Totò il buono” (1943), oltre che dei due films appena citati, si riaggancia idealmente il testo “Barboni” di Maricla Boggio in scena al teatro “SalaUno” per la regia di Mario Prosperi. Sono gli stessi personaggi a fare chiarezza sulla forma della loro commedia, appunto definendola una <favola metropolitana> che ha come presupposti non solo i lavori di Zavattini e De Sica, ma anche archetipi come la cinquecentesca “Commedia degli straccioni” di Annibal Caro, la elisabettiana “Opera dei mendicanti” da cui Brecht trasse “L’opera da tre soldi” in tempi più recenti. E’ curioso e originale che le stesse battute del lavoro di Maricla Boggio contengano i riferimenti e i chiarimenti essenziali. Così pure il capolavoro di Brecht viene citato, ma per differenziarsi: si tratta cioé, veniamo avvertiti, di un’Opera da tre soldi alla rovescia, lì erano dei finti malviventi a sfruttare dei poveri diavoli che si fingono storpi e monchi per elemosinare, mentre qui la finzione è rappresentata da un barbone che barbone non è. Ma è un ricco aristocratico che si traveste per aiutare, ecco la favola di Totò il buono, i poveracci finiti tra i cartoni per colpa di un sistema finanziario che ha ridotto sul lastrico anche il ceto medio.
L’elemento fiabesco gira tutto intorno al personaggio di Eddy, ottimamente interpretato dallo stesso Mario Prosperi, il finto barbone, ovvero il ricco nobile inglese dal buon cuore che si trasferisce nelle strade della metropoli a vivere tra i cartoni per individuare le anime belle del <sottosuolo> della città e al fine di aiutarle economicamente per rimettersi in carreggiata. Purché, ecco l’unica condizione del patto, costoro si impegnino ad aiutare a loro volta un altro disgraziato che non ha perso la speranza.
Accennavo prima al cinema di Zavattini e De Sica, ma direi anche qualcosa de “La strada” di Pinelli-Fellini: rimandi e richiami a questi monumentali esempi della quinta arte che vengono gettati sul tappeto Gloria, un’altra finta barbona, in realtà una sofisticata filmmaker, che si immerge nella miseria della vita sotto ai ponti per farne un film recitato dai barboni stessi: un’idea non tanto lontana dalle intenzioni del neorealismo dell’immediato dopoguerra.
Il testo di Maricla Boggio è umanissimo e sincero, onesto nelle sue intenzioni morali, etiche e sociali, scritto con commossa leggerezza, che non è semplicità, nonostante affronti temi esistenziali seri e impegnativi come la caduta di una classe media, un tempo benestante, nei gironi infernali della dimensione dei senzatetto. Da un punto di vista strettamente ideologico questo “Barboni” non ha e non vuole avere il taglio della provocazione politica di uno Zavattini e nemmeno lo slancio rivoluzionario di un giovane Büchner (quello del “Woyzeck” che scrisse in un articolo “pace alla capanne, guerra ai palazzi”). Qui ci troviamo piuttosto di fronte ad un’ideologia <positivistica>, la speranza che le cose vadano bene anche per i poveri nutrita da un Dickens, con l’happy end del ballo a palazzo dove i derelitti, rinati a nuova vita, saranno invitati per festeggiare la loro rinascita.
Ma c’è veramente da festeggiare? O non è solo un sogno questo finale da “e vissero felici e contenti”, come suggerisce la strindberghiana “danza tragica” che prende il posto del ballo delle cenerentole e “cenerentoli” vari? Mi sembra di intuire anche dalla scelta della nitida regia di Mario Prosperi l’intenzione di optare per questa soluzione finale più criticamente ideologica: la pantomima del ballo a palazzo al suono di un inquietante violino risveglia più angoscia che certezza nel domani. Domani tutti si risveglieranno probabilmente, anzi sicuramente, tra i cartoni.
Veramente bravi gli attori che meritano una menzione Paola Sebastiani (Gloria), Beatrice Messa spiritosissima ed euforica, a tratti isterica, punkabbestia, come pure Gino Nardella, Roberto Zorzut e Gabriele Granito: tutti attenti a dare umanità e profondità all’intreccio drammatico delle loro storie.

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