NOTA

Scritte per il teatro, dopo l’esperienza di Maricla Boggio al CeIS – centro italiano di solidarietà, intorno alla metà degli anni ottanta, da cui i libri sul tema della droga e i filmati per la RAI, “Sabellina, Flora, Olimpia – donne di spade”, furono rappresentate al Teatro Rendano di Cosenza ad apertura di un convegno sul tema della tossicodipendenza, promosso dalla Regione Calabria, la cui relazione introduttiva è stata tenuta da Luigi M. Lombardi Satriani. Queste storie sono emblematiche di quelle di tanti giovani incorsi nella droga attraverso situazioni banali, non sorretti da un dialogo con la famiglia, poi uscitine attraverso l’impegno personale, aiutati dal confronto con altri giovani riscattati da una buona comunità terapeutica.
Nel comportamento delle protagoniste e in parallelo nel lavoro degli operatori della comunità terapeutica, emerge un periodo storico ancora carico di idealità e di speranze.

 

 

Sabellina

lo ho capito che non ero figlia di quella che credevo mia madre, quando avevo già qualche anno. Me ne stavo nel cortile, a giocare con gli animali, ed è arrivata quella signora che ogni tanto veniva e mi portava regali, poi mi abbracciava e se ne andava. Invece questa volta si ferma davanti a me, e mi dice: "Sabellì, piglia la tua roba che partiamo!". lo non capivo. Per me non aveva nessun significato sentir dire: "Partiamo", ero sempre vissuta in mezzo ai campi, pensavo che il mondo tosse tutto lì. C'erano dei bambini più grandi di me, che credevo i miei fratelli, con cui giocavo: io parlavo come loro, non come la signora arrivata da fuori, che adesso diceva "Sabellì partiamo". Poi è arrivata mia madre, cioè la donna che credevo fosse mia madre, mi ha gridato: “Vattene dentro! “. Hanno cominciato a discutere, tra loro, ei accaloravano e sembrava che nessuna delle due volesse cedere. lo me ne stavo in cucina, a guardare dalla porta socchiusa. Mi stava venendo paura e cominciai a succhiarmi il dito, avevo bisogno di sfogare la mia inquietudine in qualche modo. Dopo un po', silenzio. Mia madre è rientrata, è salita di sopra, poi è tornata con una valigia di roba, mi ha preso per mano e mi ha detto: "Vai con la signora. E’ tua madre. Devi volerle bene. Ma ricordati che io continuo a volerti bene come a una figlia". lo continuavo a non capire. La signora mi prese per mano e mi trascinò via. Tenevo la testa voltata indietro per vedere mia madre, con il mio dito in bocca a trattenere uno stupore che diventava angoscia, ancora non sapevo che cosa fosse quel senso tremendo di abbandono, ma ora lo so. Ora so tante cose, ora so tutto. Anche sulla macchina fino alla stazione, anche sul treno, anche nella casa bella e lucida con tanti scalini per arrivarci, mi rimase negli occhi l'immagine di quel volto di contadina dagli occhi fissi nei miei; mi rimase quel gesto, della sua mano che si muoveVa lenta a salutarmi, e 11 movimento leggero del mento, verso l'alto, come a dirmi "Vai", a rassicurarmi, nonostante il distacco, che lei era con me perché mi aveva cresciuta, e non mi poteva cambiare da quello che ero diventata imparando da lei parole, gesti e affetti.

 

Sabellina tace. Passa un tempo fra la prima fase del racconto e quello che dirà successivamente.

 

Poi, sono passati degli anni e io sono diventata grande, andavo all' università. Appena nata, mia madre mi aveva dato a balia perché non poteva tenermi, era stata operata alla schiena, diventava subito stanca, non aveva il latte. Mio padre era un buon uomo, faceva il funzionario dello Stato e lo mandavano sempre fuori per dei lavori. Mia madre aveva già avuto una figlia prima :di me. Quella bambina l'aveva rovinata, se la portava sempre in braccio non sapendo dove lasciarla, la sua schiena s'era piegata. Insomma, non potrei condannarla, aveva dovuto lasciarmi a balia, pensava che in campagna sarei cresciuta meglio che in città.
Ma quando tornai, in quella casa dove ero nata ma che non sentivo come mia, mi pareva di essere - e lo ero - un'estranea.
E c'era quella mia sorella. Bella, buona, dolce, studiosa. Le volevo bene e me ne voleva lei, cercava di aiutarmi, perché aveva intuito le mie difficoltà. Ma io avevo il mio orgoglio. E più lei era buona, più io volevo essere diversa da lei, provare a tutti che non avevo bisogno di loro, e avevo un mondo mio. Tante volte avevo desiderato di tornarmene in campagna, ma i miei avevano risposto con il silenzio alle mie richieste, come se quella mia infanzia laggiù fosse stata un episodio da non ricordare in alcun modo, da dimenticare, anzi, come se quel periodo non fosse mai esistito.
Poi, da una donna che veniva a fare le pulizie, avevo saputo - me lo aveva detto lei a mezza voce, guardandosi intorno per non essere scoperta - che "quella donna" era morta. Mi aveva portato un filo d'oro e di coralli avvolto in un fazzoletto ricamato con le cifre di lei: "Per suo ricordo a te", mi aveva sussurrato scappando via, inseguita da un'occhiata di mia madre entrata improvvisamente nella stanza.

Così, andavo all'università. Per non succhiarmi più il pollice avevo preso a fumare, una sigaretta dopo l'altra.
In quell'epoca mi illudevo, speravo di fare delle battaglie per cambiare la società. La rassegnazione mi indispettiva, mi pareva che persone come la mia madre di campagna meritassero una vita diversa. Ma erano troppo umili, troppo rassegnate, per ottenere qualcosa. Ero impaziente e disillusa. La violenza mi appariva come l'unica soluzione per raggiungere la giustizia. Mi buttai in politica. Quel gruppo di ragazzi con cui stavo, lo avevo sostituito alla mia famiglia. I miei, li sentivo sempre più lontani, diversi da me. Indistintamente avvertivo un senso di acredine nei loro confronti. Mi avevano voluta su questa terra, e poi mi avevano dato via per farmi star meglio: ma un figlio quando lo fai, è per te, non puoi cederlo come un pacco, diventerà di quelli a cui lo dai, ti rimarrà estraneo per sempre. Così era successo a me. Ora, nei discorsi appassionati del mio gruppo di lotta, mi pareva di aver trovato uno scopo, e un sollievo alla mia solitudine. Si passavano nottate interminabili insieme, a studiare piani di azione. C'era fumo e rumore in quelle riunioni. Non sapevamo che cosa fosse stanchezza né fame. Non c'erano orari, me ne ero andata da casa. Studiare, non davo quasi più esami, era il sogno della rivolta che mi affascinava. Mano a mano che il tempo passava, ci ritrovavamo sempre più in pochi, ma ognuno di noi sentiva crescere le sue responsabilità nel gruppo. Si cominciò a tracciare una linea di azione, dei piani non più soltanto legati ad una strategia astratta, da libro, ma con obbiettivi concreti. Dovevano essere delle prove - dicevano i capi - della nostra capacità di intervento. Una volta si svaligiò un negozio. Almeno, i giornali chiamarono così la nostra azione. Noi volevamo soltanto dimostrare che era necessario un prezzo "politico" per prodotti di prima necessità. Prendemmo pacchi di pasta, lattine d'olio, scatole di zucchero, bottiglia di pomodoro. Caricammo tutta questa roba e la portammo alla gente delle borgate. Questi però erano sospettosi. Afferrarono quei pacchi e li nascosero sotto i letti, dentro gli armadi. Poi ci chiusero le porte in faccia. Non volevano concertare con noi nessun piano di azione. Avevano fame e basta. Volevano mangiare, non combattere. Soprattutto non volevano andare in galera per qualche chilo di pasta. Ce ne andammo amareggiati. Qualcuno di noi capì gli errori di quell'impostazione. Molti compagni se ne andarono. Accettarono il posto fisso, diedero esami per dei concorsi, le ragazze si sposarono e fecero le insegnanti a orario ridotto, o le casalinghe. Altri si buttarono ancora più intensamente per la strada della lotta violenta. lo ero incerta. Non accettavo che si potesse essere nelle condizioni di uccidere. Quando mi chiesero di usare, se ce ne fosse stato bisogno, quella pistola che avevo imparato ad adoperare nelle esercitazioni che facevamo sulle montagne fingendo di organizzare una gita, io non risposi subito. Avevano deciso di dare il via al piano di una rapina in banca. “Che differenza c'è, in fondo - aveva detto qualcuno di loro - tra il prezzo proletario e la spesa gratuita da una parte, e l'espropriazione di capitali frutto di plusvalore in una banca? “.
C'era la differenza - pensavo io - che in un supermercato non ti spara nessuno, se rubi un sacchetto di mele; ti troverai, al massimo, a lottare per uscire se cercheranno di fermarti, ma armi non ne hai e tutto finisce lì. Ma se porti la pistola, è già come se tu l'avessi usata. In banca poi, si sa, ci sono le guardie giurate che al primo allarme puntano il fucile senza aspettare che sia tu a tirar fuori la tua arma. Non andai a quell' appuntamento; comunicai la mia scelta, non glielo dissi in faccia ma feci in tempo a farglielo sapere, perché nessuno pensasse poi che mi ero tirata indietro per vigliaccheria, e li avevo traditi all'ultimo momento. Due ne morirono. Gli altri scapparono, con il bottino. Si cominciò a parlare di brigatisti.

Io mi ritrovai sola. I miei cercavano ancora di vedermi. Volevano che andassi a casa almeno la domenica. Ma io sentivo che avrei dovuto fare qualcosa che meritasse la loro ammirazione. per farmi rivedere. Forse non mi sentivo degna. Avevano sbagliato nei miei confronti, per amore - questo l'avevo capito -, ma non è sufficiente capire per riuscire a perdonare. Bisogna essere all'altezza. E io sentivo dolore e ira, non carità, come oggi capisco che dovevo.

Gli studi? Più che su quei libri, su cui avrei dovuto preparare gli esami, avevo passato le ore sugli scritti dei nostri teorici. E adesso mi trovavo lontana dagli studenti con cui avevo iniziato l'università. Quelli ormai erano quasi alla laurea, io mi sentivo spaesata e vecchia. Vecchia a vent'anni e poco più. Passavo delle ore da sola, a rigirarmi tra le mani quella carta scritta che mi pareva ormai retorica e vuota, ridicola esortazione a cose abiette e stupide ammantate di importanza.
Vedevo qualche amico. Ma il mio ragazzo era rimasto con il gruppo, e a me pareva di sporcarmi a andare con un altro. Poi l'ho fatto, per reagire, per sentirmi viva, per fingere di provare dei sentimenti. Non c'era niente per cui sentissi interesse, ma dovevo cercare di guadagnare almeno i soldi per continuare a vivere, anche se non mi piaceva, aspettavo che qualcosa cambiasse, che ci fosse un barlume di gioia, per un caso, magari, una luce, sì, una speranza.

Uno di questi uomini che incontravo ogni tanto mi dava qualche soldo. Non era che mi facessi pagare, per starci assieme. Ma lui trovava il modo di lasciare dei denari in un libro o sotto il portacenere, senza dirmi niente. lo me ne ero accorta, le prime volte, quando se n'era andato via, e mi era sembrato un pensiero delicato, mi ero perfino commossa. Poi avevo cominciato a prenderci l'abitudine; quando stava ancora da me, e magari era andato nel bagno, dopo l'amore, io cercavo dappertutto, vicino al letto, finché trovavo i soldi. Li lasciavo dove lui li aveva messi, ma quando ritornava accanto a me e si vestiva per andarsene, io lo abbracciavo con un trasporto bello; gli volevo bene, mi pareva un padre che pensa a una figlia e non la vuole offendere.
A poco a poco veniva anche più spesso delle prime volte; io ero contenta, stavo bene con lui; non pensavo al domani, e l'avvenire mi pareva più roseo.

Poi, d'un colpo, di soldi non ne ho trovati più. lo non dicevo niente. Non avevo detto niente prima, non potevo parlare adesso. E lui lo stesso. Tutti e due sapevamo, ma tutti e due non parlavamo. Quando stavo per essere io a chiedere - perché avevo bisogno, bisogno veramente, non c'era più una lira in casa, e le calze, l'ultimo paio, si erano smagliate, e al posto della carta igienica avevo messo gli ultimi fazzoletti della scatola di klinex -, lui, dopo essere tornato dal bagno dove s'era fatto la doccia, tutto fresco e rilassato, mi dice: "Ma tu, sai che cos' è una spada?". lo non capivo, ho cominciato a succhiarmi il pollice, non sapevo se faceva sul serio o se scherzava. "Siediti qui, vicino a me - continua lui - così ti spiego io". E comincia a raccontarmi di com'è bello non avere più problemi, non dover pensare a come fare per trovare i soldi... E io tra me e me pensavo: "Chissà dove vuole arrivare", e collegavo quei discorsi al fatto che di soldi lui non ne aveva più tirati fuori, ma quella era la prima volta che parlava chiaramente di denaro. Poi, come se avesse voluto girare intorno all'argomento che gli stava a cuore, mi dice che un mezzo c'era, sicuro e facile, per avere tanti soldi. E tira fuori una bustina e tanti altri oggettini; si mette a fare dei preparativi, lì, sul tavolino accanto al letto. Tira fuori una bustina, una fiala con un liquido chiaro, accende una fiammella, ci mette sopra un cucchiaino, mescola quella polvere bianca che stava dentro alla bustina, la scioglie dentro l'acqua, poi tira fuori una siringa, tutto questo in silenzio. lo ero affascinata, non avevo mai visto niente di simile a quello che vedevo. Con la siringa in mano, finalmente mi guarda, dritto dritto negli occhi e poi dice: "Ecco, vedi, questa è una spada. E la spada ferisce, ma questa... " - e me la ficca nella vena del braccio - questa è una ferita dolce, vedrai come ti piace... ". Ho gridato, sono stata male. Poi mi sono calmata, ho cominciato a sentire un senso di benessere. E soprattutto, non m'importava più di niente. Quei problemi che mi facevano male, - trovare i soldi, solitudine, noia, non sapere che fare, il fallimento, gli studi andati a male, la famiglia lontana, i contrasti di casa, i compagni lasciati, la lotta che mi aveva delusa - tutto, tutto era come lontano, e a poco a poco, non esisteva più: non c'era! Un sogno buffo, da guardare di fuori. lo non c'entravo, non era la mia vita. lo stavo bene. E mi addormentai.

Era mattino quando mi svegliai. Lui era sparito. Non ricordavo quasi niente. Poi mi cadde lo sguardo sul lenzuolo. C'era un segno di sangue. Sul braccio, un punto rosso, al centro della vena. E per terra, la spada.
Guardavo la siringa con ribrezzo e attrazione, oscillavo tra queste sensazioni. Si sapeva ancora così poco, a quel tempo, della droga. Lui tornò il giorno dopo. Con un pacchetto. Disse che dovevo portare quelle buste a certe persone, mi diede gli indirizzi. E dei soldi, per il lavoro. Non parlò molto. Non mi diede altre spade. Se ne andò senza fare l'amore.
lo andavo in giro come un automa, suonavo alle porte, aspettavo nei bar, telefonavo per segnalare che sarei stata all'angolo di una strada, tutto come dalle istruzioni che trovavo scritte insieme alle bustine da consegnare. E i soldi, alla fine della giornata. Mangiare, dormire, andare, consegnare, e i soldi alla fine. Forse lui aveva più tempo, un giorno, oppure si voleva soltanto divertire un poco: tornò con una spada; me la fece vedere agitandola in aria, come un giocattolo in regalo, festoso, beffardo? Lo guardai come per una sfida: gli stesi il braccio. Ero di nuovo "fatta" e felice. Quel giorno fece l'amore con me, come un premio; il lavoro andava bene, e lui era sicuro di tenermi in pugno, sempre di più, sempre molto di più di quanto non pensavo io.

Andò avanti così per tanti mesi. Estate autunno inverno e primavera. Una stagione dopo l'altra, l'anno intero. lo non me ne accorgevo. Venne un giorno mia sorella. Mi chiamò da sotto, non era mai salita lì dove abitavo. Quella volta arrivò fino al cortile per chiamarmi; finché io non mi affacciai. insonnolita, stupita anche, per quell'insistenza. Si era laureata, voleva che andassi alla sua festa. Le gridai qualche cosa, che dovevo partire, non lo so.
Richiusi. Mi buttai sul letto, esausta. Per la prima volta, dopo tanto tempo, ripensavo ai miei progetti del passato. Era cambiato tutto. E solo allora mi rendevo conto che tanti altri, come me, dimenticavano la loro vita senza accorgersi che il tempo passava, e tutto veniva perduto, per sempre, irrimediabilmente. Ripensai alle facce di quelli che incontravo ogni giorno; portando le bustine che ognuno aspettava con una ansietà irrefrenabile. Facce buie, spente, facce senza sguardo, Senza pensieri tranne che quello della droga. Persone di cui si poteva fare quello che si voleva, perché non erano più padroni di se stessi. Anch'io ero come loro. Peggio di loro. Perché li aiutavo a morire. Decisi di non fare più quel lavoro. E glielo dissi, a lui. Calma, senza scena, quel giorno quando venne con il solito pacco. Sorrise appena, senza insistere se ne andò via, dicendo: "Come vuoi. Sai dove trovarmi". Mi ]asciò sopra il tavolo tre bustine e tre spade. "Un regalo per te", aggiunse poi, quando già era sulla porta, a scomparve.

Quel giorno uscii al sole. Non lo facevo da tempo, le mie ore erano quelle della notte, quando si incontrano solo quelli che sai, non la gente che frequentavo un tempo. La luce solare del mattino mi faceva male agli occhi. Arrivai fino all'università. Qualcuno che mi conosceva, mi lanciò un'occhiata strana. Ero dimagrita, 1 capelli mi ricadevano lisci e disordinati, avevo la pelle gialla, e i denti guasti: ero diventata brutta: mi vidi in una vetrina, ero un' altra da Sabellina. Eppure ero quella, al collo avevo la piccola collana d'oro e di coralli, la toccai per accertarmi se quell'immagine e la mia persona erano la stessa cosa. Avrei voluto andare a chiedere lavoro, traduzioni, non so, un posto in una galleria, ma con quell'aspetto non era neanche il caso di provare.
A casa mi feci io una spada. Lui mi aveva insegnato, ma da sola non avevo mai provato. Fu facile e breve, mi stupii dell'esattezza con cui feci ogni cosa. Mi piacque perfino quel piccolo dolore del colpo dell'ago nella mia vena. Dopo aspettai l'effetto, e finalmente scomparve la mia immagine imbruttita, e il disagio della giornata. Fu la stessa cosa per due giorni successivi. E lo stesso anche dopo, quando la roba" dovetti riuscire a trovarmela da me, perché le bustine erano finite, ma io non potevo farne ormai più a meno.
Avevo cominciato a sentire dei dolori quando l'effetto della dose finiva: ero assuefatta, entravo in crisi di astinenza quando non mi facevo un'altra dose in tempo. Allora uscivo, di solito stava venendo scuro. Facevo piccole commissioni a quelli che avevo conosciuto quando gli portavo le dosi: messaggi, debiti da saldare... Qualcuno mi chiedeva se volevo stare con lui per quella notte. Io accettavo, per non tornare a casa nella solitudine, magari rimediavo qualche spada, chi voleva stare con me “si faceva" e "faceva" anche me; ci si addormentava insieme, ma non c'era nessuna forma di amore, solo un aiuto come quando si è in guerra.

Un giorno che non trovavo proprio niente per "svoltare", che mi torcevo dai dolori e non riuscivo a trovare nessuno, mi sono strappata quella collanina e l'ho portata a uno che sapevo. Lui l'ha un po' pesata nella mano, poi m'ha buttato davanti una bustina e ha chiuso la collana nel cassetto. Io ho preso quella busta e non sono neppure andata a casa. C'era, lì dietro, un angolo di chiesa, con dei gradini riparati da un arcone, molti andavano lì a bucarsi, ci passavano anche la notte. A terra ho trovato una siringa, era sporca di sangue, ma bucava lo stesso. Così mi sono fatta quella spada, che già un altro aveva colpito.

Non ricordo il passaggio del tempo. Le ore, i mesi, prima di "quel" giorno. Ricordo bene di essere arrivata alla sua casa perché ero certa che lei mi avrebbe aiutato. Era la donna che faceva i servizi a casa dei miei, la donna che tanti anni prima mi aveva portato quella collanina, e l'ultimo ricordo di mia madre. Sì, lei mi avrebbe aiutato, ne ero sicura. Mi fece entrare. Nessun commento sul mio aspetto sciupato, sui miei vestiti sporchi, sul mio silenzio imbarazzato. Mi diede degli abiti puliti, mi preparò la vasca piena d'acqua calda, come aveva fatto tante volte quando ero bambina. Mi diede da mangiare, e non mi chiese niente. Mentre mangiavo mi sistemava il letto, le lenzuola bianche, ricamate, e una coperta calda, cose che avevo dimenticato. Poi tutto successe come in un sogno. O meglio, no, non è così: certo io non capivo la gravità di quello che facevo, ma ero io a muovermi, io a decidere; soltanto che ero sotto l'effetto della droga. Perché appena lei se ne andò a dormire, nella stanza accanto, io mi ero fatta una spada, l'ultima che avevo. Ma quel senso di pace che volevo ottenere non arrivava. Era già un po' di tempo che ogni volta aspettavo quella pace, e non veniva, anche la dose non bastava più. Lucida, tesa, ragionavo. Sapevo che dovevo fare qualche cosa. Prendere i soldi della donna: "Tanto non mi denuncia. E vivo qualche giorno". Vado piano in cucina, apro il cassetto, trovo un po' di biglietti. Poi nel bagno, la vera d'oro - era vedova - che lasciava sul lavabo quando andava a dormire, e la crocetta con la catenella. Nient'altro che servisse. in quella casa. Ero inquieta, cominciavo a star male, vedevo luci nell'oscurità, sentivo suoni e tutto era silenzio. Presi la mia sacchetta dove tenevo i documenti e poche cose, e la pistola - quella delle esercitazioni del gruppo, che mi portavo dietro se dormivo fuori, ma era scarica, sapevo, poteva servire per intimidire -; stavo mettendoci quelle cose dentro, quando lei apre la porta e mi guarda con aria di rimprovero. "Tu mi hai rubato? - mi diceva - ma perché? Ti avrei dato ogni cosa, ma perché mi hai rubato, figlia mia?". A me pareva che mi prendesse in giro, e quel tono dolce, di rimprovero, mi sembrava una beffa; forse prendeva tempo, voleva chiamare qualcuno; in prigione io non ci volevo andare. Tirai fuori dalla sacca la pistola: sarebbe stata zitta, volevo solo spaventarla. Ma lei mi si buttò sopra, aveva paura, gridava "cosa fai”, e in quel momento dalla pistola è partito un colpo. Lei non ha detto niente, è scivolata giù. lo credevo a un'allucinazione. Come i suoni che sentivo nell'aria, come le luci, come i lampi a tratti, forse que1 colpo non c'era stato. Ma lei era lì, sul pavimento. E c'era un filo, sottile, di sangue che faceva una macchia sulla sua camicia.
Riuscii a rivestirmi, presi ogni cosa intorpidita, incredula.
Era ancora notte e stavo a casa mia. Dormii, concentrandomi tutta nel voler prendere sonno. Speravo che al mattino l'incubo se ne sarebbe andato. Il giorno dopo, sulla sedia accanto al letto, c'era la sacca: io la svuotai febbrile, dentro c'erano i soldi, e l'anello, e la crocetta con la catenina, e la pistola.

Uscii di casa. I soldi bastarono per una busta doppia. A casa scrissi un biglietto ai miei: di restituire l'anello e la crocetta ai figli della donna; di perdonare a me quello che avevo fatto, e che non avrei voluto, così come non avevo cercato quella vita, che invece a poco a poco mi era venuta tra le mani, storta; di ricordarmi con affetto a mia sorella, perché avrei voluto essere come lei e non c'ero riuscita, ma non era colpa di nessuno tranne che mia, e solo allora lo capivo.

Poi mi feci quella spada. Desideravo ardentemente sentire quel calore quando comincia a scorrere la "roba" nella vena. Non tolsi l'ago, perché il liquido fluisse lento fino alla fine. Mi addormentai così.

Sabellina guarda la gente davanti a lei. sorride con semplicità. impenetrabile.

Sì, sono morta. Ma non giudicatemi, vi prego. Perché a molti, a tutti, per bisogno di amore, può accadere di sbagliare,"

 

 

Flora

Se riuscissi a mettere in qualche altra cosa l’energia che tiravo fuori per rimediare l’eroina, io potrei essere un capo di Stato, un genio un premio Nobel. Ma nessun’altra cosa interessa come quella. Tu, le energie, te le distribuisci tra il lavoro, la famiglia, i divertimenti, lo sport, l’amore...che ne so...lo studio...il cinema...le gite e un sacco di interessi; ma diventa tutto frazionato, non c’è niente che ti coinvolga tanto da farti dire “rinuncio a questo rinunci a quello” pur di avere quella cosa là; ognuno di quegli interessi, tu lo puoi sostituire, perfino con gli affetti, è così: se ti muore qualcuno, tu stai male ma poi ti rassegni, ti consoli, ci sono gli altri che ti riportano dentro la vita. M la “roba”, quando c’è lei c’è solo lei. Tutto te stesso lo concentri in quell’idea, e quindi è chiaro che diventi un genio; ti inventi delle cose che, a pensarci dopo, ti paiono impossibili.

Per esempio, come andare dal gioielliere davanti a casa tua e dirgli: “ Oh Dio, sono rimasta senza chiavi di casa, mi fa telefonare alla donna per dirle che mi venga ad aprire? Perché ha le chiavi lei, abita qui vicino, e in un salto può arrivare fino a qui... Perchè tra l’altro ho dimenticato anche il libretto degli assegni nell’altra borsa che è rimasta nell’ingresso, quindi sono senza una lira...”:
Io facevo il numero di casa mia, non quello della donna, così ero sicura che non rispondesse nessuno.
“Pronto!...Pronto!... Oh! Che disgrazia! La donna è uscita, sarà andata dalla figlia, in campagna! Fa sempre così quando ha finito i lavori, non tornerà fino a domani...”. Finta tragedia...
“Oh Dio, che posso fare?”.
Mai chiedere soldi. Aspettare, montare bene la situazione.
“Mamma è a Parigi con papà... per quel lavoro... combinato anche con gli States...”.
Ricordare il proprio livello sociale, i genitori importanti... E a un certo punto io sapevo con esattezza che lui avrebbe detto:
“A casa mia non la posso ospitare... ma, se lei permette... andrà a dormire in albergo per stasera... Mi ha detto che i soldi li ha lasciati a casa, non ci sono problemi, son qua io...”.
E avrebbe messo mano al portafogli.
A quel punto io arrivavo a giocare sulla situazione. Ormai ero tranquilla di avercela fatta, di essere a posto per quel giorno, e così mi divertivo ancora un poco, come fa il gatto con il topo prima di mangiarselo.
“Ma no... ma no che dice!... Non ho neppure il libretto degli assegni!... a non si offenda!... Eh no! Non volevo dire che non si fidava! Sì sì, lei me li dà anche senza assegno, ma io sono fatta così, perfino con gli amici, e mi succede di non avere soldi certe volte!, io viaggio sempre senza, così almeno non me li rubano, però gli assegni, ah! quelli sempre con me!... E se poi mi dimentico di renderglieli! Che vergogna se poi non mi ricordo!...!”.
Insomma, per quella volta era fatta, lui ti chiedeva perfino scusa perché non ti ospitava a casa sua! E anche quella sarebbe stata una bella “svoltata”, perché sai le cose che ci sarebbero da rubare nell’appartamento di un gioielliere, figlio di gioiellieri, che si fida di te e in certe stanze non ci va per mesi... Meglio però non rischiare inutilmente, prendevo la sommetta buttandomela in borsa e me andavo via con un sospiro “per la mia testolina di svampita”.

Adesso sento tutta la vergogna di quelle scene da burletta. Allora sapevo già che quei soldi non li avrei mai restituiti. Il gioielliere abitava proprio in faccia a casa mia, e ogni volta che ci passavo davanti, per me, dopo, era una tragedia. Cercavo le ore in cui il negozio era già chiuso, oppure correvo fingendo che qualcuno mi chiamasse, o leggevo la posta, o il giornale, o imponevo alla donna di uscire con me portando un grosso pacco che anch’io reggevo tutta intenta a non farlo cadere...

E poi, più passai il tempo e tu vai avanti a bucarti, più il bisogno che ne hai ti aumenta. All’inizio ti pare di poterti “fare” quando vuoi. Una volta al mese, oppure quando sei con quel gruppo di amici e vuoi stare proprio bene, senza angosce...Poi cominci a concederti qualche aggiunta, anche se sei da sola, anzi a maggior ragione proprio per questo, tu dici che è una scusa “buona”: gradualmente vai a crearti quel rapporto tra te e la “roba”, che esclude perfino quelli con cui hai cominciato... E così, mentre prima ti bastavano i soldi che tua madre ti passava ogni mese, poi ti metti a vendere tutto quello che ti puoi vendere di te, ti vendi tutto quello che ti puoi vendere di tua madre, di tutta la famiglia, dei ragazzi che circolavano per casa mia, tutto il vendibile degli amici, dei conoscenti... dei parenti che andavo a trovare proprio per rimediare i soldi per a dose.

C’erano periodi in cui “mi facevo” più di un grammo al giorno, arrivavo a un grammo e mezzo, che è un quantitativo mostruoso. Una dose così vuol dire una crisi di astinenza che vai in coma profondo. Non hai neanche più la crisi, appena ti cala il tasso dell’oppio nel sangue non riconosci più né il padre né la madre, ti devono fare la morfina loro, in ospedale, se no te ne vai.
Ci volevano centinaia di migliaia di lire al giorno, per quelle bustine... E la mia fantasia girava... girava... non si fermava mai... non si fermava finché non aveva trovato la soluzione quotidiana; ogni soluzione era sempre più tremenda eppure io la trovavo sempre accettabile, perfino divertente.

Una volta sono andata a trovare una zia di mia madre, che rimaneva prozia per me: una signora che doveva essere stata molto bella in gioventù, e anche alla sua età – oltre gli ottanta – conservava una eleganza, sempre con i suoi scialli di pizzo, le sue gonne lunghe di velluto e di raso, e i capelli alti con lo chignon appoggiato sulla nuca... Le pareti del suo appartamento parevano quelle di una cappella votiva, piene di oggetti preziosi, acquasantiere d’argento, miniature incorniciate in ebano e in avorio... piatti di peltro... smalti orientali dai disegni a labirinto...
Mia madre mi ci portava da bambina. Adesso, quelle poche volte che ci andavo, lei era così contenta che, per dimostrarmi la sua gratitudine, diceva: “ Ecco, questo te lo lascerò quando sarò morta... e anche questo, se sarai buona e obbediente e vicina alle cose di Dio”. Erano sempre gli stessi oggetti che mi mostrava, libretti da messa con la costura in madreperla, il servizio dei bicchieri da champagne – “della mia festa di fidanzamento” – e un rosario dalle avemarie di granati, i paternostri di ametista e la catena tutta anelli d’oro. Il rosari ostava chiuso in una tasca di raso rosso ricamata a spighe di grano, papaveri e fiordalisi; la tasca – una specie di borsellino delle monache – lei la apriva per mostrarmi il rosario, poi ce lo richiudeva e riponeva il tutto in un’acquasantiera di ceramica azzurra appesa accanto al divanello dove eravamo sedute tutte e due. Poi la zia diceva: “Ti preparo il tè”, e mi lasciava sola continuando a parlarmi dalla cucina, mentre metteva sul vassoio le tazzine e il piatto dei biscotti sempre pronto.
E’ stato un attimo, e così naturale quel gesto: la taschina dall’acquasantiera è volata nelle mie mani; il rosario è scivolato nella mia borsa con un suono tintinnante subito attutito da sciarpe e fazzoletti.
“Questo rosario in fin dei conti è mio – pensavo, lucida, convinta -, lei me lo ha destinato; perché aspettare quell’evento così triste che è la morte? Adesso, può servirmi, adesso molto più che per una preghiera fra dieci anni”.

Sono andata avanti così per qualche anno. Non mi sembra neppure vero che quel periodo sia durato tanto, come abbia potuto, giorno dopo giorno, rimediare la roba, e sopravvivere.
I miei continuavano ad andare e venire per i loro affari. Non stavano più insieme, non c’erano mai stati veramente, tranne i primi tempi, fino a quando ero nata io. Però continuavano a vivere nella stessa casa, non tanto per me – ormai io me ne andavo un po’ di qua un po’ di là -, quanto per il lavoro; discutevano sempre, erano telefonate interminabili con gente importante, telegrammi dall’estero, partenze improvvise e un sacco di soldi che giravano. Per questo loro erano così generosi con me, potevano permetterselo, e per loro era un sollievo sentire che così stavano a posto, - loro lo credevano, in buona fede -: i soldi e regali, vestiti, la macchina nuova, gli stivali di moda. Sì, certo, erano delle attenzioni verso di me, nella loro vita contavo. Ma quando si parlava? Mai. Partivano, e lasciavano la busta con dei soldi. Tardavano a ritornare, al rientro dicevano: “Bè, che ti serve, Flora?”, e uno dei due stava già lì, con la biro in una ,ano e l’assegno nell’altra. Io inventavo esigenze: il pullover di Gucci, la bici a ruote piccole, mi serviva un’enciclopedia... Tutte cose che poi non comperavo, ogni entrata se ne andava nel grande fiume della droga. E poi se mi chiedevano: la bici?, rubata!; l’enciclopedia?, a casa dell’amica con cui studiavo; il pullover? – sorrisetto malizioso mio - : “ E’ rimasto a casa di un amico, con cui poi ho litigato e non ci vado più...”. Alla fine però hanno capito. Credo che sia stata la prima volta, dopo tanti anni, in cui si sono chiusi in una stanza e si sono messi a discutere di qualche cosa che non fossero affari.
“La colpa è tua”, diceva uno.
“Non ci sei mai”, ribatteva l’altra.
“Tu sei la madre, dovevi seguirla di più”, tornava a urlare mio padre.
“ E’ il padre in certe circostanze che si deve imporre”, ribatteva mia madre.
Insomma, anche lì sbagliavano. Perché la buttavano in termini di colpe, di mansioni, di ruoli, non di affetto, come io sentivo che avrei avuto bisogno che fosse. Delle volte avrei voluto che mi avessero picchiato, per quelle bugie lampanti, che gli buttavo in faccia con quel sorrisetto ipocrita perché mi sentivo a disagio io stessa di inventare così male. E loro, niente! Si bevevano tutto. “Volevano” bersi ogni cosa: io chiedevo, loro davano, e tutto stava a posto. Adesso i conti non tornavano. Ma non avevano ancora capito fino in fondo qual era la situazione in tutta la sua gravità. Avevano paura di affrontare l’argomento. Così ci giravano intorno, con cautela, non usando mai il termine “droga”, non facendomi mai riconoscere che mi bucavo. Dissero che il mondo è pieno di pericoli... che una ragazza deve stare attenta alle cattive compagnie... che mi facessi un viaggio, così cambiavo aria. Anche quella volta mi diedero dei soldi. A me andava bene così: capivo che non era la strada giusta per cambiare, ma io, a quel tempo, non volevo cambiare!

Così, con quei soldi, me ne sono andata in India, con un amico. Ci siamo stati una quindicina di giorni. Lì era facile rimediare la roba, ne abbiamo fatto delle scorpacciate. Ce ne stavamo lì, sdraiati sulla riva di un fiume, senza pensare al dopo. Intorno a noi c’era gente poverissima, stracciata, ma noi stavamo nella nostra sfera di cristallo, in un altro mondo. Quando i soldi stavano finendo, ce ne siamo tornati in Italia con una bella provvista di roba.

Facevamo l’amore tutto il giorno, ci alzavamo solo per andare a prendere qualcosa da mangiare, ci portavamo un pollo dalla rosticceria e ce lo mangiavamo a letto. Dopo un po’ c’erano ossetti dappertutto, macchie di vino sulle lenzuola, noi dormivamo fino a che la fame o la necessità di un’altra dose non ci facevano risvegliare.

E’ stato in quel periodo che sono rimasta incinta. All’inizio c’è stato un rifiuto. Mi pareva un sopruso, veniva meno la mia libertà, insomma io non l’avevo voluto quel bambino. Per un momento ho pensato di dirlo a mia madre, non so neppure io perché, avevo bisogno di confidarmi. Il pio ragazzo era incerto; passava da momenti in cui diceva: “Che bello sono padre sì sì teniamolo sarà un maschietto sarà uguale a me!”, ad altri stati d’animo; diventava cattivo, mi batteva, urlava che era tutta colpa mia, avrei dovuto starci attenta, e adesso si dovevano trovare i soldi per farmi abortire, sennò poi dovevamo anche pensare a questo figlio. Erano gli alti e bassi della droga, non era lui a parlare, era la roba.

Io ero molto triste. Ero certo, riflettendo lucidamente sulla mia condizione, che i miei mi avrebbero spinto ad abortire, ed erano così tante le difficoltà del futuro che mi si presentava, che forse mi sarei lasciata convincere. Ma dopo? L’idea che quel bambino avrebbe potuto cambiare la mia vita cominciava a farsi strada in me e a darmi la forza di tenerlo. Più io mi dirigevo verso questa scelta, più il mio ragazzo vi si opponeva con sempre maggiore decisione; temeva anche le reazioni dei suoi, sentiva che quel cambiamento lo avrebbe messo di fronte a delle responsabilità che lui non voleva assolutamente. Neppure io le volevo, quelle responsabilità, ma sentivo di aver bisogno di occuparmi di qualcuno, di dare a un figli quello che non avevo avuto io dai miei genitori.

Cominciavo a immedesimarmi nel ruolo, ma in conto era pensare in astratto a delle cose, un conto era riuscire a mantenere dei propositi. Continuavo a bucarmi. Lui, a un certo punto, i suoi erano venuti a riprenderselo. Dormivamo, ubriachi e fatti. Lo presero letteralmente di peso dal letto. Lo avvolsero nel lenzuolo, lui si mise a gridare, c’erano i genitori e il fratello maggiore. Io mi ero svegliata, cercavo di coprirmi. Mi guardavano con disprezzo: “Puttana – disse la madre -. Puttana, l’hai rovinato tu a nostro figlio, adesso non ti credere che ti riconosca quel bastardo!”. Lui lottava, non voleva andare con loro, mi chiamava, solo in quel momento capiva che forse mi voleva bene, che l’unica salvezza era restare uniti, con quel bambino che sarebbe nato. “Flora ti voglio bene ci rivedremo ti cercherò”, riuscì ancora a gridare mentre lo caricavano sulla loro grande automobile. Seppi poi che l’avevano portato in una casa che avevano, in montagna, dove non avrebbero potuto in nessun modo trovare della roba. “Così- pensavano – si disintossica, non si buca più, e lo salviamo”. Ma non è il fatto di restare senza droga per un po’ che ti fa smettere. Io l’avevo fatto, quando ero andato in una clinica per la cura del sonno. Era un periodo che stavo rischiando di lasciarci la pelle, in quel posto mi avevano rimesso in sesto, non facevo che mangiar e dormire, mi davano dei tranquillanti per cui non capivo niente, non avevo neanche la forza di reagire, sentivo vagamente che mi mancava qualche cosa – la roba, certo -, ma poi crollavo in quel buio senza suoni che è il sonno dei tranquillanti. Ero uscita da lì gonfia di cibo, lo sguardo fisso, senza più neppure un briciolo di droga in giro per il sangue. E la prima cosa che avevo fatto era stata di andare a farmi: zac!, appena fuori da quel portone laccato – un posto costosissimo, tanto pagavano i miei, credevano che c’ero andata perché avevo l’esaurimento nervoso, una delusione amorosa, lo stress dello studio, baggianate del genere, tanto loro bevevano tutto pur di star tranquilli -; appena fuori ero andata in quel solito posto dove si va quando sei proprio a secco e qualcosa rimedi. E mi ero fatta. Se non ti togli dalla testa il bisogno di farti, il problema rimane: appena puoi, ti fai di nuovo. E io, di cose, e avevo da tirar fuori, ma non volevo, ci tenevo sopra una pietra, comprimevo tutto dentro di me, così speravo di soffocare i problemi. Per lui era lo stesso. Delle volte ci eravamo raccontati di noi, in qualche rara occasione, in cui ci si apriva alla confidenza e sembrava che fosse ancora possibile una vita diversa, degli interessi. Ma non ce la fai da solo, vorresti ma non ce la fai. La droga ti trascina e, finché va, va.

Così sono rimasta sola. Che fare? In due era più facile trovare la roba. Certe volte, quando i soldi di casa erano finiti, si andava in giro in Vespa, lui guidava e io strappavo borsette passando rasente i marciapiedi. poi le radioline dalle macchine, se ne trovava sempre qualcuna aperta. E la merce alla Standa, allungavi la mano mentre l’altro distraeva la commessa, poi pagavi qualche articolo, il resto rivendevi, erano oggetti nuovi, c’era sempre qualche spacciatore che te li prendeva per un decimo del loro valore. Ma la bustina, la rimediavi.

E adesso? La pancia non si vedeva ancora; ma non riuscivo più a correre come prima, se qualcuno si accorgeva che lo stavo derubando, e non volevo rischiare, potevo perdere il bambino. Sì, cominciavo a parlarci, con quella cosa che piano piano sentivo che viveva, dentro di me, in silenzio.

Battevo. Era l’unica possibilità per fare soldi. E poi, in quegli uomini che vedevo una volta e che forse non avrei più incontrato, mi illudevo di trovare un po’ d’amore. Ci parlavo, alcuni mi guardavano stupiti: una donna, in quei momenti, si usa e basta; qualcuno era imbarazzato; non rispondevano, oppure facevano gli spiritosi; un paio scapparono pensando che fossi matta. Uno mi baciò sulla fronte, dopo l’amore, e mi disse che gli ricordavo sua madre. A quello raccontai che aspettavo un bambino, e lui sorrise, disse che gli sarebbe piaciuto che fosse stato suo, poi mise ancora un paio di biglietti sui soldi che aveva appoggiato si un angolo del tavolo, e se ne andò. Speravo di incontrarlo, ma non venne più. E un giorno, sul foglio di un giornale dove la verduriera del mercato mi aveva avvolto delle arance, vidi la sua fotografia – non potevo sbagliarmi, l’avevo guardato a lungo quella volta -: si era annegato, e la data era di due giorni dopo il nostro incontro, doveva essere successo quella sera.

Volevo smettere, volevo smettere, volevo smettere per lui, per quel bambino. Ma una volta che ho resistito per tre giorni, i dolori erano così forti che ho avuto paura di abortire. Me l’ha fatta un’amica, una siringa; io piangevo, le chiedevo di aiutarmi per pietà, lei ha detto: “Serve a te più che a me”, era anche lei una ragazza che batteva, si bucava ogni tanto, non era ancora allo stadio mio, e poi non era incinta.
Il bambino è nato prematuro. Almeno credo, perché delle date non sono ben sicura, me l’hanno detto all’ospedale: mi ci aveva portata quell’amica, era una notte che stavamo sul viale una vicina all’altra, ad aspettare i clienti. Io ero molto magra, non si vedeva che ero incinta; poi avevo perso il conto dei mesi, mi pareva che ci fosse ancora tempo. La mia amica stava contrattando con un tizio che s’era avvicinato con una bella auto lunga lunga, a me mi son prese le doglie, m’è sfuggito un lamento, non ne ho potuto fare a meno; l’amica si è voltata e m’ha detto: “Flora, non ci sono dubbi, questo nasce, quel grido lì io lo conosco, ce n’ho due di bambini e mi ricordo!”. Poi mi ha preso per un braccio, ha aperto la portiera della macchina e ha detto a quello: “Forza bello mio, all’ospedale! E fai presto sennò questo nasce sui sedili!”.

Il bambino è nato subito, non mi ha fatto soffrire. Ma chi soffriva era lui: si torceva e gridava e respirava a stento. I medici hanno detto che aveva la crisi d’astinenza, era nato assuefatto dalla droga. Han faticato un sacco a disintossicarlo; e a quel punto, ci ho provato anch’io. Avevo dato quella croce a lui – a lui sì, perché era un maschio anche se assomigliava a me -;dovevo sopportarla anch’io.

Ma si fa presto a dire. Ho provato. Ci sono ricaduta, una volta dopo l’altra. Il bambino se l’era preso mia madre. Quando l’avevano avvertita non ci voleva credere, diceva che era un trucco. Poi ha visto il bambino, lui stava ancora male e lei ci si è buttata, ha cercato subito di dare a quel nipote l’affetto che non aveva dato a me. Ma chissà poi se era stato così, i primi anni dell’infanzia non si ricordano, sono una massa confusa di sensazioni, forse mia madre era stata tenera con me, come lo era adesso con Libero – era questo il nome che gli avevo dato - , e io non me lo ricordavo. Comunque, lei si è portata via il bambino e io sono entrata in comunità. All’inizio sono andata via più di una volta, mi sono fatta, sono tornata a battere, era più facile che rubare, io poi mi illudevo sempre di trovare qualcuno che mi amasse. Quel bambino in cui avevo tanto sperato, che avevo fatto nascere proprio perché speravo di salvarmi attraverso il mio ruolo di madre, mi faceva sentire invece tutto il mio fallimento, non solo di persona, ma di madre, soprattutto. Io l’avevo fatto e basta: che potevo insegnargli? Come potevo allevarlo? Così lo lasciavo tra le braccia di mia madre. E lei, a fin di bene, stava sbagliando di nuovo, si era creata un ruolo dove io non c’entravo. Così io facevo ancora di più la parte di quella che non merita neppure il nome di madre, mi bucavo a più non posso, mi prostituivo, me ne fregavo della vita.

Poi sono tornata in comunità. Ero disgustata di me stessa, e la droga non mi dava più nessuna gioia. Una ragazza mi ha preso da una parte, mi ha detto: “Raccontami di te”. Io ero chiusa, sospettosa. Ho detto poche frasi, sui miei, sul mio passato vuoto, sul bambino che si era aggiunto come rimorso ai miei problemi. Ma non mi aprivo, stavo zitta, indifferente. Allora lei mi ha raccontato la sua vita. Ne aveva fatte di sciocchezze, altro che me in certe cose! La guardavo, cominciavo a provare interesse. Lei era lì, stava bene. E allora io? Avrei potuto farcela? Chissà. Ascoltavo, e a poco a poco, mi veniva voglia di raccontare anch’io. Ogni tanto mi capitava di non potermi trattenere, così la interrompevo, e dicevo: “Anch’io, anch’io così, ma guarda!,sembra che stai parlando della mia vita!”. Alla fine eravamo amiche. Così lei diceva: “Resti, allora?”. E io: “Se tu mi aiuti, sì”.

Il bambino non l’ho potuto vedere per un pezzo, e neppure mia madre. Prima dovevo raccapezzarmi io, sapere che cos’ero.

Da allora sono passati già due anni, e sono due anni che non mi buco più. Ma mi sento madre da appena pochi mesi, da quando rivedo mio figlio sapendo che posso occuparmi di lui, che ne sono capace, che sono in grado di prendermi delle responsabilità.
Anche mia madre ha fatto dei passi avanti. Ha capito in che cosa aveva sbagliato a suo tempo, così come ho riconosciuto io i miei errori. Ognuna per la sua strada, abbiamo trovato un equilibrio, il senso della vita, il dialogo. Parole? Esprimersi comporta sempre un certo rischio, la retorica è in agguato. Ma i fatti parlano. Io sono qui, sono un’altra, sono una persona.

 

Olimpia

La cosa strana è che, il mio primo buco, io me lo sono fatto in una giornata stupenda.
Era primavera, c’era un sole caldo come d’estate, e la città era tutta inondata di questa luce dorata, squillante.
La mattina avevo dato un esame all’università, uno di quegli esami che ti danno soddisfazione, ti sembra di aver creato un rapporto di amicizia con il professore, e il tono del dialogo si è fatto allegro, come se all’improvviso si fosse instaurata una confidenza di anni tra te e quell’uomo che prima temevi... Insomma l’esame era finito con un trenta e lode.
Quando ero tornata a casa, mamma mi aveva fatto trovare un regalo che, se ci penso ancora adesso la gioia che mi ha dato! Era una cosa che desideravo da tempo, ma non osavo comprarla perché – pensavo – che me ne facevo di quella tuta da motocicletta se la motocicletta non l’avevo!...
E Ciro si è fatto trovare a casa con la moto: l’aveva comprata, finalmente! Ciro è il ragazzo con cui stavo, mia madre gli voleva bene, si erano messi d’accordo tra loro per quella sorpresa, così siamo partiti subito su quella moto, io, abbracciata a lui che guidava, nella mia bella tuta sfavillante!...
Era un insieme di stupidaggini, forse... Una motocicletta, un esame andato bene, nemmeno una tuta sono cose che ti cambiano la vita, che ti danno una vera sicurezza. Ma in fondo, viviamo di queste piccolezze... Così siamo andati fino al mare, io e il mio ragazzo. Avevamo una casa grande, sulla spiaggia, ci andava la mia famiglia, solo d’estate, ma qualche volta io ci arrivavo in segreto, per fare l’amore con lui. E quel giorno, è stato lì che mi sono fatta la prima dose. Lui si bucava già da un po’ di tempo. Ci siamo “fatti” insieme, tutti e due. E sovente mi sono chiesta, poi: “Ma ‘quel’ giorno, perché?”. Prima, avevo “fumato” qualche volta, e anche abbastanza in certi momenti. Ma il fumo non aveva portato dei cambiamenti, nella mia vita. Almeno, mi pareva così. Ma “quel” giorno, perché?

Olimpia si fissa in una concentrazione lucida, straniata.

L’”eroina” è un traguardo. Il risultato di quello che sei tu. E’ l’ultimo scalino. E’ un punto a cui tu arrivi, dopo tante infinite vicende a cui non hai dato nessun peso, che si sono accumulate dentro di te fino a schiacciarti, fino a farti cercare “quella cosa” che ti permettesse di vivere ancora, senza soffrire, continuando a non sentire quel peso che a quel punto non potevi non sentire più. E quando arrivi a “quel” punto, la giornata bella non ha importanza come non ha importanza la giornata brutta. E la giornata bella ti fa affiorare quel senso di vuoto per le cose che non hai avuto mai, per quello che non sei stata mai, tu. E quel vuoto lo senti, quel non avere e quel non essere li senti dentro di te senza averne coscienza. Perché mi pareva di star bene, ero tutta soddisfatta, e invece avevo dentro di me quel vuoto che chiedeva di essere riempito. Come è falso, come è diverso dalla verità tutto quello che appare dall’esterno, di un comportamento di una persona! La gente mi invidiava: io ero quella che sa parlare, quella che si trova bene con tutti, che non ha timidezze e dice “buongiorno” e “buonasera”, una che decide una cosa e la fa, senza problemi.
E io invece, dentro di me, sapevo che ero un nulla eterno. Ero senza volontà, non credevo in niente, non sapevo prendere delle reali decisioni. E mi viziavo, mi compiangevo, mi premiavo, mi davo dei contentini, come se fossi stata la figlia di me stessa. Mio padre, mia madre, c’entravano in questo mio modo di essere? C’entravano, sì. Ma l’avevo capito poi; non potrei accusarli di niente: ognuno cerca di fare del suo meglio, almeno così credevano di fare dei genitori come i miei, nei miei confronti.
Mia madre... Con lei c’era sempre stata competizione. Una volontà di ferro, voleva una cosa e la otteneva. Un lavoro? Subito tirava fuori le qualità giuste per ottenerlo. Un uomo? Era lei a valutare se le piaceva, lui non c’entrava proprio niente nel decidere, era come soggiogato. Decideva di dimagrire? A pranzo non mangiava che carote, io mi torcevo se smettevo la pasta per un giorno. C’era questo sentirmi sempre meno di lei, questo avvertire l’oppressione della sua superiorità, e insieme il rimpianto di non riuscire, io, ad essere come mia madre. Lei mi sembrava forte, era così il concetto di forza che io avevo a quel tempo, e per questo l’ammiravo e la odiavo. Non ricordo - in tutta la mia infanzia, fino ai diciotto anni perlomeno – di essere uscita, una volta, una, con mia madre. O un momento di tenerezza che lei abbia avuto per me: prendermi sulle ginocchia, farmi una carezza...
Così, la mia dolcezza, io me la inventavo. E in quel giorno di sole avevo voluto essere felice...

Che cosa avevo in comune con Ciro? Mah! La giovinezza. La voglia di uscire dal guscio di dipendenza della famiglia. L’ansia di essere diversa dal modello di mia madre che rifiutavo. Il desiderio di non assomigliare a quella che lei avrebbe voluto che io fossi, “perfetta come sua madre”, efficiente, elegante, pronta per un matrimonio conveniente.
L’assurdo era che a lei, Ciro sarebbe andato benissimo per me come marito; per questo lasciava volentieri che ci vedessimo, ma anche lui, Ciro, voleva essere diverso dal modello che i suoi speravano che rappresentasse. Ma “diversi” come? “Diversi”, dicevamo, e alzavamo le spalle al fastidio del ragionamento. La dose era forse la cosa che più ci avvicinava, era l’amica connivente che ci univa contro gli altri e ci faceva sentire forti e felici.
Così ci siamo “fatti” insieme. Avevamo le nostre cartine, e un cucchiaino d’argento del servizio di nonna... e il laccio nuovo comprato in farmacia, e l’acqua distillata, e finalmente, la siringa... Tutto perbene, come un gioco di lusso, senza quell’ansia di arrivare al buco che tanti avevano e che a noi faceva ridere, perché per noi era come, dopo un bel pranzo e una fumata, quando uno decide di prendersi anche un bel whisky.

Olimpia si abbandona a rivivere il ricordo.

Ecco, niente aveva più importanza, in quel momento. Il mare era davanti a noi, ma io lo sentivo su di me come una carezza, e la mano calda di Ciro era un’onda che si confondeva in tutto quel mare. Io non sentivo più dolore o fastidio o noia, “ero” un mare, un mare immenso e calmissimo, pieno di luci e di suoni morbidi e lontani... La pace era scesa in me, io mi sentivo di cristallo, mi sembrava di emanare luce, non mi poteva distruggere niente e nessuno... ero di cristallo... ero di cristallo... ero di cristallo...
Passarono le ore del sole. Rimanemmo là fino al tramonto. L’effetto magico diminuiva a poco a poco, ma l’imbrunire porta tristezza e sonno, e noi accettammo quel ritorno al mondo come una cosa inevitabile e che potevamo sopportare.
Il primo anno che mi sono bucata è stata una cosa soprattutto mondana. Mi bucavo senza togliere un soldo neanche all’acquisto più superfluo, al profumo, al golfino firmato, al capriccio del gioiello...
Era anche più facile che oggi trovare le dosi, e io mi “facevo” con Ciro, per gusto nostro e per disprezzo degli altri, di quella città che era pronta a giudicare solo per pettegolezzo.
Mi bucavo ogni due, tre, settimane, era una vacanza in più, il senso del proibito.
Poi papà si è ammalato e le cose sono cambiate. Là è cominciato il dramma, la tragedia in tutti i sensi.

Mio padre, da bambina, l’avevo visto così poco. Sempre fuori per lavoro, un rapporto tremendo con mia madre, porte che sbattevano, urla e pianti, oggetti lanciati in aria e spaccati a terra, discussioni a non finire poi la casa vuota, un silenzio allucinante, dove la tensione rimaneva nell’aria come un’elettricità velenosa... E io sola, al buio, ad aspettare che uno di loro almeno tornasse, e invece era sempre la governante che mi metteva a letto irremovibile e cortese, fingendo di ignorare la mia disperazione.
Ma proprio perché mio padre era sempre fuori, quando tornava – e tornava per me – era una festa indescrivibile. Erano risate di gioia, era la giostra ed era il gelato...

Olimpia rotea danzando su se stessa come se fosse portata in giro da una giostra.

... era il vestito nuovo comprato insieme, era la cena al “réstaurant”, con me come una dama e mio padre cavaliere adorante...

Tutto questo avveniva soprattutto quando ero bambina. Dopo, mio padre rimaneva fuori sempre di più. Quella dolcezza, trovata nel rito del buco insieme a Ciro, era forse la ricerca di qualcosa che sostituisse il paradiso perduto. Mio padre, anche così sfuggente, così raro a venire a trovarmi, era l’idolo delle mie giornate, la speranza delle vacanze, il punto di riferimento del mio futuro, quando, diventata grande, avrei potuto viaggiare con lui, e stare insieme, noi due, come amici, come un amante e la sua fidanzata, lontani da tutti, anche e soprattutto da mia madre. Era successo qualche volta che ci raccontavamo le nostre impressioni su di un libro che leggevamo tutti e due... A lui non gliene importava niente di portarmi in giro solo perché ero bella e intelligente, sentivo che gli faceva piacere stare a chiacchierare con me, chiedermi che cosa pensavo...

Ma quando ogni sogno si sarebbe potuto avverare, quando ci sarebbe stato finalmente tempo per capirsi, volersi bene, mio padre si è ammalato. E allora la droga è diventata necessaria. Per tutto il tempo che papà è stato malato, io non ero più neanche “fatta”, ero in catalessi ventiquattr’ore si ventiquattro. Perfino Ciro, che si bucava anche lui, delle volte mi diceva: “Olimpia, ma che fai? Basta!”. Ero diventata senza limiti. Dormivo dalla mattina alla sera. Stavo in uno stato di tORpore, gli occhi chiusi, senza forze. Non ero una persona, non c’ero. Non esistevo proprio.
Ma mia madre era così occupata a star dietro a medici e ospedali, a esami e radiografie, che neppure si era accorta del mio stato. I miei lo hanno capito quando papà è stato operato a Roma. Mi hanno telefonato, mamma e i fratelli di mio padre, sembravano contenti. Mi dicono: “E’ andato tutto benissimo, siamo qui che brindiamo alla sua guarigione! Vieni subito anche tu”. E io, presa da questa felicità, non pensai affatto alla roba, che mi stavo “facendo” a più di un grammo al giorno. Telefono all’Alitalia, chiedo qual è il primo aereo in partenza per Roma, avevo giusto il tempo d’infilare quattro cose in una borsa e correre in macchina all’aeroporto.
Sono arrivata a Roma senza niente di niente e ho avuto la prima crisi di astinenza. Io non sapevo che cos’era, non l’avevo mai avuta, perché mi ero sempre “fatta” come una pazza, non c’erano momenti senza roba, finito l’effetto di una “pera”, subito me ne facevo un’altra... All’arrivo tutto è andato bene, ero così felice di riabbracciare mio padre che mi pareva di essere rinata, non avevo più bisogno della roba, potevo riprendere a vivere, con una speranza dentro!... Ma all’indomani ho cominciato a sentirmi strana. Ero in ospedale e verso le tre del pomeriggio, pian piano sentivo che la gola mi prudeva, all’inizio quasi come un solletico, poi sempre con maggior fastidio, fino a diventare, quel prurito, insopportabile. Ma non mi veniva in mente la “roba”. Dicevo: “Che cosa avrò?”, e tossicchiavo. Poi ho cominciato a sentir freddo, e questo freddo diventava sempre più forte... Mi sono ritrovata in un bagno all’ospedale a vomitare fiumi di bava bianca... di bile...

Mentre Olimpia descrive i sintomi della crisi di astinenza, rivive ogni fase di quei dolori.

“Oh!... Sto male... sto male... Devo ripartire... Non posso rimanere qui... Non chiedetemi perché... Lo so... lo sento... non potete fare niente per me!...”.

Olimpia riprende il racconto.

Certo, non potevano fare niente per me. Ma io non dovevo dirglielo, che mi “facevo”, che avevo bisogno della mia bustina piena, della mia siringa... del mio laccio... oggetti amati e odiati... che a casa mia sapevo dove trovare, come le dosi che bene o male avevo sempre rimediato senza problemi di sopravvivenza, tutt’al più con i sotterfugi che inventavo ogni volta.
Mi diedero delle gocce per farmi addormentare; pensavano che stessi male per via di mio padre, l’emozione, la paura che fosse ancora in pericolo – perché poi loro lo sapevano, che lui era veramente in fin di vita, l’operazione aveva rivelato che il male era incurabile; ma a me non lo avevano detto, fingevano allegria e avevano la morte nel cuore -; così pensavano che avessi intuito qualcosa. Ma io, era talmente il desiderio che mi padre riprendesse a star bene, che non avevo aspettato altro che quell’illusione, ci credevo fino in fondo, ciecamente. Così passai una notte allucinante, gli altri intorno mi assistevano, ma io neppure li vedevo; andavo in bagno e vomitavo, poi tornavo a letto e mi torcevo dai dolori, per il senso di nausea, per le contrazioni dei muscoli, per la bava che mi usciva come un filo continuo dalla bocca e a tratti si trasformava in un fiume inarrestabile e allora di nuovo in bagno, la testa tenuta su da mia madre, la prima volta forse che ne ricordo i l contatto fisico, il tremore, per me, della sua mano, il calore delle sue vene che scorrevano accanto alle mie tempie facendomi sentire la sua apprensione, forse anche l’affetto, per me. Ero pallida, sudavo, avevo freddo. Ad un certo punto mi addormentai, ma fu per poco; era un sonno pieno di incubi, di trafitture e di immagini paurose. Mio zio e mia madre, quando mi svegliai, mi guardavano impauriti, sull’orlo di scoprire il mistero che mi faceva stare così male. “Olimpia, che cos’hai,che cos’hai figlia mia? – si lamentava mia madre – Salti sul letto come una cavalletta, gridi, tieni gli occhi sbarrati...”. Li guardavo ed erano loro a fare spavento a me, pallidi come lenzuoli. Ma io non mi vedevo, non vedevo il mio viso disfatto che li faceva temere, loro, per la mia vita; ancora non avevano capito, perché, ero così, o forse non volevano capirlo, perché quella scoperta avrebbe dato il via ad una serie infinita di dolori, di responsabilità, avrebbe richiesto delle spiegazioni tra noi, riaprendo piaghe lontane nel tempo, che per la malattia di mio padre non era neppur possibile riconoscere che esistessero.
Così il giorno dopo ho ripreso l’aereo e sono tornata a casa mia.

Ma anche lì, le dosi non bastavano più. Mi “facevo”, e già pensavo a come rimediare la dose successiva. Allora anche i miei dovettero arrendersi all’evidenza, ammettere che mi bucavo, che mi drogavo. Mio padre si è operato altre volte, e ogni volta le speranze diminuivano, di salvarlo. Lui usciva dall’ospedale sempre più magro, sempre meno fiducioso. Io, in un barlume di volontà, decisi di disintossicarmi; cominciai a fare le “scalette”, a diminuire le dosi, provai con la morfina, provai con il metadone... Ero in ospedale, nello stesso periodo in cui anche mio padre era stato ricoverato lì per degli esami. Lui arrivava dal suo padiglione, veniva a trovare me, si sedeva accanto al mio letto. Io mi alzavo, cercavo di andare un po’ in giro con lui, nei corridoi, fino alla cappella, che era forse il luogo meno legato allo squallore dell’ospedale... Com’era diverso quel nostro incontrarci da quando ce ne andavamo in giro per i bei negozi, e poi alle giostre, allegri e sani! Era una pena vederci insieme, ancora di più che quando ce ne stavamo nei nostri letti, zitti e immobili come cose. Lui aveva il pigiama e la vestaglia, ma quelle stoffe belle parevano imbruttite nell’uso insolito della passeggiata. Io avevo un accappatoio di lana rosso, strideva quel colore non più segno di civetteria, ma segnale di sangue... Eravamo dei morti che passeggiano. Le infermiere, quando ci incontravano, si voltavano dall’altra parte per la pena. Poi lui se ne andava, tornava al suo reparto. Allora io correvo al telefono a gettone, chiamavo i vecchi amici, quelli che sapevo che avevano la roba, e dicevo “Vi prego, portatemi qualche cosa... vi prego vi prego... io mi devo fare... mi devo fare assolutamente!”.

A un certo punto, mio padre in ospedale decisero di non tenerlo più, ormai non c’era niente da fare. Mamma, ricordo, disse: “ Bisogna andare a prendere papà, sotto l’aero, con l’ambulanza”. Allora ho capito che era finita. Quello è stato il periodo più doloroso della mia vita, il periodo più inaccettabile. E stranamente, in quei due mesi, non mi sono “fatta” mai. Sono rimasta sempre vicino a lui. In quei giorni la morfina girava a casa mia a fiumi. Gli facevano tre, quattro anche cinque iniezioni in una giornata. E io non mi sono mai “fatta”. Perchè in me era subentrata una condizione che – non so come definirla – ma era pazzia, era demenza: io ero convinta che papà guariva! Di fronte all’evidenza di quel corpo martoriato, di fronte alle diagnosi dei medici, alle facce degli amici, delle infermiere!... Mi sembrava una cosa troppo fuori dal mondo. Così stavo sempre con lui. Quando soffriva – perché nonostante la morfina aveva dei momenti di dolore che non si potevano eliminare -, gli dicevo : “Dai, abbi pazienza, papà, quest’estate vedrai cosa faremo!”.

Morì una mattina. In silenzio, quasi proseguendo il sonno. Lì per lì non ho provato niente. Come se non fosse successo niente assolutamente. Avevo fame, volevo mangiare dei dolci, non avevo pensieri. Poi sono passati cinque anni, e ogni giorno avevo soltanto il senso della dose da trovare, nient’altro: un rifugio – la roba – il mio nido di protezione: non pensare, non soffrire, non sentire niente. Ma non trovavo nemmeno più “quella” pace, era un’illusione cercare sollievo aumentando la dose. Svegliarsi ogni mattina sudata come un animale, e dire: “Dove li trovo io i soldi, oggi, che cosa posso fare...”. Era una vita che non poteva più andare avanti così. Volevo ammazzarmi, farla finita. Ma il mio coraggio non arrivava fino a tanto.
Sono stata in quella situazione, a letto, al buoi, per svariati giorni. Non mi andava di guardare la luce del sole, non mi andava di vedere gli altri in giro per la casa; era come se fossi stata sotto terra. Poi, piano piano, ho cominciato a uscire da questo torpore. Avevo saputo che c’era un Centro, con un prete che lo dirigeva, e bisognava andarci per appuntamento. Un mio amico c’era entrato mesi prima; io lo avevo incontrato e mi sembrava un altro, non si bucava più, era ingrassato, pulito, roseo... Quell’incontro aveva continuato a girarmi nella testa. Persa per persa, volevo fare anche quell’esperimento. Dopo ospedali, cure del sonno, scalette di morfina e metadone. Ma sì. Anche il Centro. L’alternativa era la morte.

All’inizio, quello che mi chiedevano, mi parevano cose assurde: arrivare a un’ora precisa ad un appuntamento.... segnare il giorno di un incontro fin da una settimana prima e doversene ricordare... telefonare in quell’arco di tempo per dire “ecco, ho telefonato...”. mi parevano cose stupide, io tutto quello che mi ricordavo era l’incontro in un posto fissato per rimediare una dose, per il resto era il caos! Poi ho iniziato a capire, e più ancora mi sono resa conto che quelle cose erano le prime responsabilità che mi davano, era un mettermi alla prova, e quindi era importante che io dimostrassi che ci stavo a quell’impegno, e che lo rispettavo. In comunità ho cominciato pulendo i vetri, dopo un po’ di tempo lavavo i piatti, lavori umili, facili, ma che richiedevano attenzione, impegno. E parlavo anche, con dei ragazzi che avevano fatto lo stesso mio percorso; parlavo di me a loro, e loro mi parlavano della vita che avevano fatto; ci confrontavamo, e scoprivamo che le tappe erano identiche, e le delusioni, le sofferenze, le frustrazioni, le stesse. E il rimedio cercato, lo stesso, anche: certo, la droga. Ma chi era già uscito da quel buco nero, adesso ci seguiva, stava con nei e ci diceva: “Anch’io ho fatto questo, anche a me è capitato così, eppure sono uscito, lo vedete, sono qui, sono davanti a voi, non mi buco più, sto bene...”. Erano quei ragazzi che avevano fatto la mia stessa vita, a darmi la fiducia. A me non sembrava quasi vero. Dentro di te, ti vien da dire: “ma come stai? E’ strano... Allora è possibile?”. Ma non è stato semplice. Ho sofferto, ci sono stati momenti duri, crisi, desiderio di tornare indietro, di farmi appoggiare di nuovo dalla “spada”. Mi è costato molto, è un prezzo alto da pagare, ma credo di esserci riuscita.

Adesso, sono io ad aiutare quelli che ancora ci stanno dentro, a quelle spade. Io lavoro in comunità, da quei primi passi a pulire i pavimenti, ho fatto tutto il percorso del “programma”. Sono stata in cucina, poi alla lavanderia, e dopo via via la dispensa, il giardino, l’orto, l’amministrazione... Piano piano, mi davano sempre maggiori responsabilità. E mentre salivo quei gradini, andava avanti il lavoro più importante, quello di guardarmi dentro, di capire che cosa c’era sotto la patina dell’indifferenza, che mi aveva portato a drogarmi per anni, per non sentire la solitudine, la sofferenza, l’impegno con la vita.

Erano giorni lunghi di discussione, venivano fuori urla e la crime disperate, tutti ne uscivano sconvolti; emergeva la coscienza di quello che non avevi mai voluto riconoscere di te stesso, ambiguità e pigrizie, il rifiuto del dialogo con gli altri, la debolezza, le soluzioni di comodo. E poi le decisioni, i passi avanti: quello che era stato era stato, la vita era tua, dovevi viverla, non tener conto del passato, delle colpe degli altri, degli affetti mancati, degli abbandoni, delle ingiustizie. Qualunque cosa fosse stato, erano gli anni davanti a te a contare. E per te come persona, per l’affetto degli altri, pronti a un tuo cenno a tenderti una mano, dovevi vivere, dimenticare, e darti con amore. Io in comunità avevo ricevuto questo modo nuovo di interpretare i giorni della mia esistenza. Adesso sentivo la necessità di restituire quello che avevo ricevuto ad altri che ne avevano bisogno, come ne avevo avuto bisogno io. Fa molto male tirar fuori tutto quello che si è nascosto in fondo al proprio cuore. ma dopo tu rinasci, respiri sollevato. E’ una sensazione di gioia, che ti fa sentire gli altri come dei fratelli. Non sei più solo.

V. nel sito, sotto la voce Saggi, “Farsi uomo oltre la droga” e “La casa dei sentimenti – itinerario per uscire dalla droga”.

 

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