Dalle recensioni a “Egloga”

Avanti!, martedì 3 ottobre 1972

Al Festival Internazionale della prosa di Venezia

Ghigo de Chiara

“Dolore e rabbia della Sicilia di sempre”
(...) “Egloga” è un tentativo di teatro documento che, per l’impianto narrativo prescelto, può ricordare il “Discorso sul Vietnam” di Peter Weiss; qui il Vietnam è la Sicilia, luogo di colonizzazione incessante, visitata sul filo delle testimonianze e delle indagini di due grandi meridionalisti contemporanei, Ernesto De Martino per quanto riguarda l’elemento irrazionale del Sud (pratiche di magìa, superstizione, esorcismi) e Danilo Dolci per quanto riguarda le condizioni di vita, oggi, in una regione che pure fa parte (geopoliticamente almeno) dell’ottavo paese industriale del mondo.

 

 

Momento Sera, Roma, 2 ottobre 1972

Giorgio Polacco

“Servi e padroni nel profondo Sud”
(...) Tutta l’”Egloga” è percorsa – e scandita – da due cori: quello dei Nobili, vecchie cariatidi di splendori passati, oggi consunte dal peso di tradizioni polverose, e quello dei Ragazzi Azzurri, cui è affidata la funzione del controcanto popolare. A loro spetterà, nel finale dell’opera, di “giustificare” simbolicamente le arance che i braccianti ammucchiano ai loro piedi. “Un pensiero – scrive la Boggio – non muore nel suo episodio. Per questo, ciò che rimane alla fine, non è solo un mucchio di arance da giustiziare”.
(...) Il momento migliore è forse al secondo atto, in una “via crucis” allegorica che conduce un personaggio, Bernardo, coi suoi bambini attraverso dispensari, enti assistenziali, ospedali, assessorati, polizia e chiese ( e qualche altro ancora) in un’affannosa e disperata ricerca di carità e di pace.

 

 

L’Unità, 2 ottobre 1972

Arturo Lazzari

“Egloga” di Boggio-Cuomo in scena a Venezia

“La Sicilia nella morsa di un’antica violenza”
(...) il testo indica chiaramente un certo studio delle forme popolari di canto, di lamentazione, di esorcismi, di magìa largamente distribuiti nel corso dell’azione. La quale si concentra in due episodi: nel primo tempo c’è la successione degli occupatori della Sicilia, dai Fenici ai Savoia, i contendenti si alternano al potere, e intanto chi vince si merita il giubilo del popolo che ne riceve, invece, bastonate. Sequenza ovviamente semplicistica, ma molyo opera dei pupi. Nel secondo tempo c’è la storia delle peregrinazioni del contadino Bernardo, povero, malato, con sei figli, alla ricerca di qualcuno che lo aiuti; e tutti lo rimandano ad altri, in un giro che coinvolge tutte le autorità.

 


L’Espresso, settembre 1972
Corrado Augias

Il sostantivo egloga rimanda ad almeno due significati:”componimento di argomento pastorale” e “succinto testo normativo”. Giocando su questa ambivalenza Maricla Boggio e Franco Cuomo hanno intitolato “Egloga” il loro ultimo lavoro teatrale che segue a “Santa Maria dei Battuti”.
Argomento di “Egloga” è la Sicilia, non quella dei dépliant pubblicitari, ai quali del resto nessuno crede più, bensì l’isola da sempre soggiogata e corrotta.
Nel primo tempo l’azione è animata da veloci spostamenti temporali nel corso dei quali si ripercorre la successione delle varie dominazioni: da quelle contemporanee che tralucono qua e là nelle battute (“le frane sono cose di Cristo – come si possono fermare le frane? – solo Dio può”) a quelle consacrate nelle pagine dei libri di testo delle medie: fenici, greci, cartaginesi, bizantini, arabi, normanni e via continuando fino ai Savoia. Il secondo tempo invece è centrato soprattutto sulla sopravvivenza ai giorni nostri di condizioni di quasi incredibile drammaticità come superstizioni religiose, clientele politiche, sfruttamento, rassegnazione.
Non c’è dubbio che questo copione appartiene a quel filone del teatro contemporaneo che si definisce politico, rivoluzionario o di protesta. Dai canoni di quella drammaturgia, “Egloga” si distacca però nel finale dove non si additano radiosi orizzonti né si accenna a imminenti trionfi. Anzi, le ultime battute suggellano lo svolgimento con un accento così fortemente negativo da lasciare spazio per due sole possibilità: la disperazione o la rivolta. Verso queste due possibilità estreme spingono anche la funzione e il particolare tipo di linguaggio che gli autori hanno affidato al coro. Mentre i vari personaggi si esprimono con un vocabolario allusivo rispetto a quello quotidiano, il coro indugia su lunghi elenchi ritmati di malattie infettive o di assassinii per mano mafiosa senza che alcun filtro letterario attenui l’immediatezza del segnale.
Dove può essere rappresentato un testo così? Naturalmente bisogna mettere da parte tutto il teatro ufficiale a meno di non voler ripetere l’ingenuo errore di uno Strehler che volle intrattenere la platea del Quirino sulle vicende della guerriglia in Angola. Ma anche i “teatrini” fuori mano sembrano inadatti perché lì si danno convegno pochi catecumeni già arciconvinti. La verità è che questo testo andrebbe rappresentato nelle piazze dei paesi siciliani dove troverebbe giustificazione la sua struttura e dove tutti si riconoscerebbero nella vicenda.

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