Espresso Sera, 2 agosto 1990

Gaetano Caponetto

La drammaturgia di Maricla Boggio, di cui stasera va in scena “Maria dell’Angelo”

(...) domani sera sarà la volta di un teatro che sa affondare le sue radici nella cultura popolare ma succhiandone tutti gli umori con una coscienza socialmente impegnata.
(...) Maricla Boggio, scrittrice, drammaturga, ma soprattutto intellettuale impegnata a trecentosessanta gradi nella vita sociale e culturale ( anche esercitando in modo non convenzionale la critica teatrale), non è nuova allo scavo di queste problematiche che incidono sia sul sociologico sia sull’antropologico. In Sicilia vedemmo una sua riduzione teatrale della novella verghiana di “Don Candeloro” ( il puparo travolto non solo dalla crisi del suo mondo artistico ma dal mutamento sociale familiare), in una interpretazione alla Settimana Pirandelliana, del Piccolo Teatro Città di Agrigento, con la regìa di Gianni Salvo. Ma anche a Catania maricla Boggio è stata presente con alcuni suoi interessanti lavori. Il caso più recente è stato quello di “Mamma Eroina”, presentato nel febbraio 1988 all’”Angelo Musco” nel contesto di un incontro sul tema sempre tragicamente attuale “Droga, triste realtà”: Interprete era l’attrice Lina Bernardi (in un angoscioso monologo sulla disperazione di una madre colta in una sala d’ospedale dove la figlia è morente per un’overdose) e la regista Saviana Scalfi: due donne, la Bernardi e la Scalfi, che oltre dieci anni fa furono le fondatrici (assieme alla Boggio e a Dacia Maraini) del teatro femminista “La Maddalena”.
Ma già prima la Boggio era stata a Catania con un suo lavoro che destò scalpore e non poche scomposte, convulse reazioni: “Santa Maria dei Battuti” ospitato al Teatro Club allora, nel gennaio del 1970, fiorentissimo di attività e di proposte. Erano gli anni delle battaglie “antipsichiatriche” di Basaglia e la pièce era impegnata in quella direzione, e come si è ricordato, suscitò anche nella nostra città polemiche, contrasti e dibattiti. A dare un’ulteriore idea del tipo di teatro che la Boggio coltiva servirà forse ricordare uno spettacolo andato in scena nella scorsa stagione: “Olimpia Teresa Carlotta, la Rivoluzione condanna tre cittadine”. In una stagione teatrale in cui molti delitti furono perpetrati in nome della Rivoluzione di cui ricorreva il bicentenario, per il rapporto pretestuoso o superficiale con l’evento dell’ ’89 oltre che per la tenuità di molte cose presentate, la Boggio vedeva la grande travagliosa epopea rivoluzionaria dal punto di vista di tre donne di diverse posizioni politiche, oltre che di differenti personalità a livello psicologico ed esistenziale. Tra i molti critici che discussero con interesse e apprezzamento dello spettacolo, giova ricordare quanto ne scrisse sulla “Nazione” Paolo Lucchesini, in occasione della messa in scena a Bagni di Lucca: “La sala delle pietre, stanzone medievale dalle volte altissime, avvolto in una quasi totale oscurità, è lo spazio ideale per “La Rivoluzione condanna tre cittadine”, novità di Maricla Boggio: un carcere orrido, l’anticamera della morte per tre donne vittime dell’albagia maschile. Tre vite, tre storie, tre monologhi appassionati per attrici intelligenti, perfettamente aderenti ai personaggi storici loro affidati(...). Le tre donne rivivono – non raccontano- momenti chiave della loro esistenza, diremmo, in diretta, nell’imminenza dell’estremo passo verso il patibolo (...). Maria Teresa di Savoia Carignano, principessa di Lamballe, fu vittima dell’onestà, della purezza, della fedeltà (...). Più note Carlotta Corday, l’assassina di Marat, sanguinario nemico del popolo, e Olimpia de Gouges, popolana diventata scrittrice, drammaturga, polemista scomoda, accanita avversaria di Robespierre. La dolce, fanciullesca maria Teresa ha trovato un’interprete fresca, appassionata in una Gea Lionello trepidante, pensosa, aristocratica. Micaela Esdra ha conferito la furia guerresca di una donna controcorrente a Carlotta Corday (...). Una lucidissima Magda Mercatali è stata un’ispirata Olimpia, dialettica, matura, sicura di sé, che non teme di sfidare la prosopopea maschile proponendo politiche scandalose, vera rivoluzionaria lungimirante (...). Lo spettacolo è stato accolto più che calorosamente. Un successo, insomma”.
Notevole successo riportò anche “Storia di niente” che fu messa in scena alla Rassegna Città Spettacolo di Benevento nel settembre del 1988. Di questo lavoro ( che fu firmato da Gino Zampieri con le scene di Bruno Buonincontri e i costumi di Gianna Gelmetti) così scrisse Ghigo de Chiara: “Con “Storia di niente” Maricla boggio fa ritorno in un territorio che per lungo tempo le è stato familiare: mi riferisco all’estrema periferia romana, alveare plurietnico, luogo di insoffribile emarginazione, di invivibilità e di violenza. Siamo, è evidente, dalle parti di Pasolini, e pasolinianamente la Boggio incontra in questo triste scenario il suo personaggio in cerca d’autore. Si tratta di un adolescente, Davide, sospeso tra la miseria sottoproletaria della sua famiglia e i miti del benessere celebrati dalla TV: se non hai “quella” maglietta, “quelle” scarpe, “quel” giubbotto non sei nessuno. Ed è per essere qualcuno che Davide persino innocentemente percorre la sua obbligatoria trafila di giovane borgataro.
Il maggior pregio drammaturgico di questa “Storia di niente” è la sua atroce ineluttabilità, il fatto che la sorte di Davide è già inscritta nella dimensione esistenziale del contesto: il protagonista, voglio dire, non può metterci niente di suo se non la propria fisicità destinata a finire all’asta. Ma forse basterà l’incontro con un educatore autentico a dargli l’ultima possibilità di farsi uomo. Tutto questo è raccontato senza piagnistei populistici, senza tirate da comizio: le conclusioni, le tragga pure – se ne avrà voglia – lo spettatore, il quale è invitato a godersi uno spettacolo aspramente vero ( “dal vero”) e, nella sua fluidità, perfino gioioso”.



L’Ora di Palermo, 3 agosto 1990

Roberto Giambrone

Quando l’angelo sta nel cascinale

Maricla Boggio parla del suo testo che va in scena oggi a Taormina

“Una piccola intensa partitura, religiosa e vibrante di pietà”. Così il regista Ugo Gregoretti definisce il nuovo testo teatrale di Maricla Boggio che nella sua messa in scena debutta stasera alla Villa Comunale di Taormina, nell’ambito della rassegna diretta da Gabriele Lavia. Un testo, quello della Boggio, che si immette nel flusso incerto della nuova drammaturgia, dove l’impegno sociale e l’afflato umanitario sembrano cose di altri tempi, territori tabù. La Boggio, invece, senza paura di andare controcorrente, si è ispirata a natuzza Evolo, una mistica calabrese, per raccontarci la storia di Maria, una donna che si fa carico delle sofferenze altrui, per esorcizzarle attraverso un dialogo aperto con l’angelo del Signore.
Regina Bianchi, che fu allieva di Raffaele Viviani e attrice di punta nella compagnia di De Filippo, ha sposato col cuore il difficile ruolo di Maria. Lo spettacolo è il suo lungo monologo rivolto all’angelo, in una modesta stanza di casa contadina. Con grande partecipazione la donna descrive i dolori e le miserie di una umanità che bussa alla sua porta per cercare una parola di conforto e per continuare a sperare. A volte è il miracolo, ma ogni tanto l’angelo non risponde, e maria si interroga sul significato della fede.
E’ strano come, leggendo un testo così legato al dolore dell’esistenza, si possa anche sorridere.
“La giocosità può venir fuori anche da una dimensione religiosa – spiega Maricla Boggio -. Un’allegria che non ironia né denigrazione, ma alleggerimento di certi pesi. E’ una dimensione evangelica: in fondo anche Cristo era giocoso in certi suoi comportamenti”.
Il regista Gregoretti, nel presentare lo spettacolo, dà il bentornato al messaggio. Sei d’accordo con lui nel riabilitarlo?
“Chi scrive deve avere necessariamente qualcosa da dire. Che poi il teatro, per essere bello, deve prescindere da questo, è un’altra cosa. Il credo nel messaggio inteso come tentativo di comunicazione”.
Può sembrare consolatorio uno spettacolo come “Maria dell’angelo” in un momento di grande crisi spirituale e sociale?
“Consolatorio non direi, piuttosto può essere un segnale di speranza”.
Maria è una figura chiave, una mediatrice tra il terreno e il divino. C’è bisogno di persone come lei nel mondo?


Gazzetta del Sud, 4 agosto 1990

Vincenzo Bonaventura

“Maria dell’Angelo” non è Natuzza Evolo. La mistica di Paravati è stata solo l’ispiratrice

Maricla Boggio parla del suo lavoro che dopo Taormina andrà ad Altomonte e Reggio Calabria

“Il riferimento a Natuzza Evolo vuole solo essere un omaggio a un’ispirazione, ma il mio testo “Maria dell’Angelo” non è un riscontro speculare della donna d Paravati. Una creazione autonoma, se artistica non sta a me dirlo, che trae la sua origine dalla grande capacità di rasserenazione di Natuzza, dalla sua comprensione della necessità del dialogo fra le persone”. Maricla Boggio spiega così la dedica alla Evolo che sta in cima al suo testo “Maria dell’Angelo” che ha debuttato ieri sera a Taormina Arte – ne riferiremo nel giornale di domani – con la regìa di Ugo Gregoretti e l’interpretazione di Regina Bianchi.
La Boggio ha conosciuto la mistica di Paravati cinque anni fa, quando ha girato su di lei un film per Raitre, della durata di novanta minuti. Si trattava allora di un approccio antropologico favorito appunto dall’antropologo calabrese Luigi M. Lombardi Satriani: “Conobbi in quell’occasione una donna – dice la boggio – che merita grande rispetto e che, pur legata alla cultura e alle tradizioni del posto in cui vive, dimostra una grande apertura verso il prossimo”.
Per Maricla Boggio, autrice di lunga militanza teatrale, originaria di Torino e trapiantata a Roma, quell’esperienza era rimasta come un punto di partenza per quell’emozionante avventura che è sempre la scrittura di un nuovo testo. Spesso ispirata dalla realtà sociale come è accaduto in “Mamma Eroina” o più recentemente in “Schegge”, che portano drammaticamente in scena i problemi della droga e dell’emarginazione sociale, tipica dei quartieri ghetto delle grandi città, questa volta si è soffermata su un tema più generale ma sempre eminentemente sociale: “Ho creato un personaggio di cui oggi, secondo me, c’è tanto bisogno di fronte ad una umanità spesso in crisi non solo per il terribile incontro che molti fanno con il male fisico, ma anche per le tante crisi che nascono dalla solitudine, dalla sensazione del nulla. Maria racconta al suo angelo le storie dei suoi interlocutori, dei tanti cui non ha mai rifiutato il dialogo, attraverso i cui bisogni è possibile ricavare uno spaccato della società contemporanea. Credo che ne venga fuori un afflato finale di solidarietà perché io penso che non esistono né una soluzione a tutti i mali né la disperazione assoluta”.
Verso la fine appare il personaggio di Cristo ma, spiega ancora l’autrice, “non è trattato in chiave religiosa, vuole essere piuttosto un tentativo di risposta alle tante domande che si affollano nell’uomo”.
Ma, insomma, quanto c’è di Natuzza Evolo in Maria dell’Angelo? “Poco o nulla nei fatti – risponde la Boggio -. Natuzza è riservata e parla poco e in dialetto calabrese. Maria invece parla molto e lo fa in lingua: Natuzza parla con le persone e non con l’angelo come fa Maria. No, non si somigliano se non nell’origine: ripeto, la Evolo è stata l’ispirazione di principio e con la dedica ho voluto renderle omaggio per il grande rispetto che merita e a dimostrazione della gratitudine che le serbo, perché sono stata la prima cui ha concesso di poterla riprendere”.
“Non ho scritto un monologo vero e proprio perché non credo in questa forma di teatro, mi sembra falsa. Ma non ho voluto neanche mettere in scena tutti i personaggi che vanno da Maria perché avrebbero finito con l’oscurarla. Li vediamo tutti inglobati nella protagonista, che li ha fatti suoi attraverso la sofferenza. Lei poi parla con l’Angelo che non si vede ma che, mi pare, abbia la forza di un altro personaggio”.
Rimane da scoprire come “Maria dell’Angelo” sia arrivato a Taormina ( proseguirà poi per varie altre piazze, fra cui altomonte, per il festival mediterraneo dei due mari, e Reggio Calabria) per il suo debutto nazionale. “tutto si è svolto sempre in una situazione di grande serenità come propiziata dalla mia ispiratrice, dall’incontro immediato con l’interprete ideale, Regina Bianchi, a quelli successivi con l’organizzatore, Sebastiano Calabrò, con il regista, Ugo Gregoretti. Ho saputo casualmente che Lavia, con il quale sono stata compagnia d’Accademia ( lui frequentava come attore, io come regista) era diventato direttore artistico di Taormina Arte e che aveva deciso di dare spazio alle novità italiane: l’ho chiamato, ha letto il testo e in pochissimi giorni si è deciso tutto”.
Conferma Regina Bianchi: “Il personaggio di Maria mi ha entusiasmato subito e forse pensavo che fosse facile da fare. Invece ho dovuto superare molte difficoltà perché è tutt’altro che semplice dare vita scenica ai pensieri di questa donna. Secondo me, non è un personaggio che si può recitare troppo né è possibile farlo cedere alla retorica della commozione. Si tratta di un lavoro impegnativo proprio perché occorre riuscire a trasmettere la sua semplicità”.
Il regista Ugo Gregoretti racconta invece di aver creduto di dover trascorrere un’estate da disoccupato teatrale dopo l’esperienza del suo film “Maggio musicale” che aveva fatto seguito al suo abbandono di due importanti direzioni artistiche, quelle dello Stabile di Torino e del Festival di Benevento. “Avevo proposto all’Agis – scherza il regista - di istituire un premio speciale destinato a me, quello per i migliori successori: Ronconi a Torino e Giaccheri a Benevento, mi pare che posso essere soddisfatto. Comunque è venuta questa occasione di “Maria dell’Angelo” e sono contento di tuffarmi nel teatro. Mi pare che in questo lavoro Regina Bianchi tocchi l’apice del non naturalismo grazie alla sua naturalezza. Il personaggio è sempre credibile ma come sublimato. Ho visto questo testo come un rondò, dove tutti i personaggi raccontati da Maria hanno una dinamica circolare a spirale. Ma io non credo nella necessità dell’unghiata del regista, anzi penso che molti registi dovrebbero andare dalla manicure “.
“Maria dell’Angelo”, il cui testo è pubblicato dalla rivista “Hystrio” diretta da Ugo Ronfani, è replicata ancora stasera alla Villa Comunale.



Giornale di Sicilia, 5 agosto 1990

Renato Tomasino

Presentata a Taormina-Arte una coraggiosa novità di Maricla Boggio

Un angelo sceso al Sud

Può un laico parlare di fede? Ma parlarne dall’interno, con adesione alle sue ragioni o alla sua qualità? Evidentemente sì, purché abbia occhi e orecchie per guardarsi attorno e per intendere, cuore libero da pregiudizi per sentire quello che gli altri sentono. E’ la scommessa, davvero coraggiosa, di Maricla Boggio in questo suo nuovo testo di teatro, “Maria dell’Angelo” prima novità drammaturgica di Taormina-Arte caldamente applaudita alla Villa Comunale.
Con una scrittura che incontra l’oggettività professionale del “reportage” giornalistico tanto che un primo nucleo del tema pare sia stato fornito da un programma RAI sulla mistica calabrese Natuzza Evolo – ma anche l’analiticità del saggio antropologico – come ha notato Lombardi Satriani – e in più con una umana partecipazione, una pietà autentica che tutto scalda, l’autrice ha dunque proposto cinquanta minuti di teatro senza compiacimenti alla moda, tutto eticamente fondato sulla necessità di comunicazione.
Ugo Gregoretti, il regista, ha avuto il merito di porsi al servizio di questa eticità con un meravigliato candore quasi da fanciullo, con un rigore professionale che sa, all’occorrenza, rendersi neutro e trasparente.
(...) Per un siffatto monologo interiore ci voleva un’attrice di razza, e Regina Bianchi ha dimostrato ancora una volta d’esserlo. L’ha aiutata, nel finale, l’intensa presenza di Roberto Accornero nei panni, difficilissimi, di un ultimo visitatore ambiguamente a metà tra il Cristo e l’uomo. Per il resto l’attrice è sola sulla scena; sola con il suo linguaggio fluente che di proposito prende le distanze da ogni accento folclorico e preferisce straniare la vicenda, con la sua nitida aderenza senza lacrime alla pietà del testo, con il suo dialogo interiore che le fa variare toni, sorrisi, sguardi sulla pena del vivere.

 

Messaggero Veneto, 5 agosto 1990

Paolo Petroni

(...) “Maria dell’angelo” è una meditazione sul dolore e sulla spontaneità della fede, condotta attraverso la figura di una donna ispirata a quella reale di una veggente calabrese, Natuzza Evolo.
(...) Un lavoro di dialogo astratto e di intima affabulazione.

 

Gazzetta del Sud, 5 agosto 1990

Vincenzo Bonaventura

Regina Bianchi brava e applaudita “maria dell’Angelo” vince (lei sola) una scommessa scomoda e difficile

In una società in cui all’illuminismo razionale sembra essersi sostituito quello ottuso e in cui avanza uno scetticismo presuntuoso, un testo come “Maria dell’Angelo” scritto da Maricla Boggio (...) è una scommessa scomoda e pericolosa. Accomoda perché è difficile da rendere teatralmente nella sua tensione spirituale ma assolutamente non confessionale; pericolosa perchè si presta al rischio di essere fraintesa dal prevedibile atteggiamento dall’alto in basso del pubblico, non troppo abituato a guardarsi dentro e impaurito dalle lezioni di solidarietà.
Si potrebbe dire che “maria dell’Angelo” si pone davanti allo spettatore come la confessione per molti semicattolici, laddove il rifiuto di un confronto con gli altri nasconde spesso una comoda rimozione della propria coscienza. E’ un testo, insomma, che in qualche modo mette davanti alle proprie ipocrisie e costringe a riscoprire qualche sentimento, primo fra tutti la solidarietà, che appartiene alla sfera sempre meno utilizzata del dare piuttosto che a quella del ricevere. (...) Si pensi che maria dell’Angelo, personaggio ispirato alla Boggio dalla frequenza con Natuzza Evolo, la mistica calabrese di Paravati, è un raro esempio di capacità di dialogo con il prossimo, di rasserenazione, come dice la stessa autrice. Una donna, dunque, che nella sua ignoranza e nella sua semplicità, esteticamente dimessa, deve comunque emanare il fascino della personalità. E’ proprio questo che manca al personaggio ricostruito in scena e che quindi fa franare tutte quelle indicazioni che hanno bisogno di credibilità per catturare il pubblico.
Quell’universo di dolore raccontato da maria nei suoi dialoghi con l’invisibile Angelo finisce con l’apparirci estraneo e lontano, quanto invece dovrebbe essere una sorta di memento di impostazione laica ai momenti più tragici della vita e alla necessità di trovare qualcuno che, al di là di un rapporto col trascendente non negato ma neppure avallato, abbia la capacità di dare conforto, di dare un senso all’esistenza quando è piegata da interrogativi più grandi di noi.
Diremmo che il testo della Boggio, certo non perfetto, comunichi tutte queste cose e nel sublimare il personaggio di Maria e il suo rapporto credibile-incredibile con l’Angelo prima e con Cristo dopo abbia anche spunti di autentica poesia, capace di sollecitare un’adesione pure a livello di emozione. Ed è un testo che esprime inoltre quell’alienazione del nostro tempo che ci fa lontani fra di noi: una parola diversa non a caso la si trova da Maria, lontano dalla città verrebbe quasi la voglia di dire lontano dalla civiltà, in un luogo dove non c’è troppa differenza tra ciò che si vuol fare e ciò che si fa. Il tutto senza evitare gli interrogativi posti da certi fenomeni che quanto meno implicano una dimensione umana diversa dal consueto. Maria parla in prima persona e tutto viene quindi visto con la semplicità e l’ingenuità dei suoi occhi. L’autrice certo non bara, ciascuno potrà poi tirare le somme a proprio modo.
(...) Insomma, rimane l’impressione che da “Maria dell’Angelo” si potesse ottenere uno spettacolo migliore di quello che pure è stato lungamente applaudito alla prima taorminese.



Avanti! , 6 agosto 1990

Ghigo de Chiara

“Maria dell’Angelo” di Maricla Boggio

“Maria dell’Angelo” di Maricla Boggio è un racconto ispirato a una mistica guaritrice ( e veggente o consolatrice) che opera tuttora in un paese della Calabria. l’interesse dell’autrice non tanto va ai “miracoli” – che pure si confermano attraverso la voce del popolo e i referti dei medici – quanto alla misura del personaggio di questa Maria: alla sua serenità, alla sua fragranza contadina, alla sua rustica familiarità con gli angeli e con i santi, al suo porsi davanti al mistero con una dimestichezza che sarebbe blasfema se non partisse da un cuore immacolato. Sicché questo confidarsi della protagonista ( perchè d’una lunga confessione è fatta la vicenda) si tinge anche spassosamente di stupori campagnoli, e sfioriamo quella comicità bertoldesca che talvolta si insinua perfino nei fioretti di Francesco d’Assisi quando le menti semplici dei “fratelli” strologano incuriositi sulle stigmate, sui presagi, sulle guarigioni del giullare di Dio. Solo che qui, nel lavoro della Boggio, tale rarefazione estatica si fa luce non in un medioevo comunque predisposto alla leggenda, ma in un “oggi” ostinatamente scientista: e il merito del testo è proprio nel sospetto di un momento antico sopravvissuto all’estinzione, quasi per portento antropologico, fino alla nostra miscredente contemporaneità. L’attrice Regina Bianchi, limpidamente guidata dalla regìa di Ugo Gregoretti, esprime con indicibile sentimento della verità i moti del suo straordinario personaggio che si consulta con l’invisibile angioletto ispiratore ( e maternamente talvolta lo sgrida e ci litiga, si dispera perché i troppi sofferenti che a lei ricorrono la distolgono dai doveri di massaia, si arrabbia coi giornalisti che la perseguitano, accoglie senza neanche troppo smarrirsi la visita di un Cristo in blue jeans ( Roberto Accornero) venuto a rafforzarla nella sua missione. Le scene di Autiero, i costumi della Bono e le musiche di Sani assecondano il candore della innovazione.



L’Ora di Palermo, 6 agosto 1990

Roberto Giambrone

Questa è una vita di miserie e io gliele dico a Gesù...

Nasce da un’esigenza lo spettacolo della Boggio. Quella di dover dire, senza timore, che c’è ancora spazio nel mondo per un po’ d’umanità. Può sembrare retorico il pretesto, ma una magica combinazione salva lo spettacolo dalle trappole dell’ovvio e del pietismo. Merito soprattutto della grande interpretazione di Regina Bianchi e della regìa di Gregoretti.
E’ vero. Maricla Boggio parte dalla cronaca, ancora una volta, per descrivere una giornata di maria, una mistica che si fa portavoce delle disgrazie altrui all’angelo del Signore. Ma stavolta la cronaca c’entra poco, è davvero un pretesto per riflettere sul dolore dell’esistenza col quale, dice il Cristo della Boggio, si dovrebbe imparare a convivere serenamente.
(...) E maria trova una parola per tutti, si fa tramite con il divino. Un personaggio umanissimo, tormentato da dubbi e stanchezze. L’angelo a cui si rivolge è invisibile, una presenza discreta che si annuncia con una tenue melodia elettronica. Vediamo cristo, invece, che viene a trovare maria per darle forza e dissipare i suoi dubbi: è un giovane dall’aspetto comune, non a caso interpretato dallo stesso attore che veste i panni del giornalista, un’altra anima piena, vittima del cinismo che distingue la sua professione. “Non è cattivo – dice Maria -, solo non capisce”.
Mass-media, droga, mafia, violenza e degrado urbano: non manca nulla, ma, come si diceva, la cronaca si perde nella finzione e diventa poesia. Il segno forte dello spettacolo di Gregoretti non è il dato storico, la didascalia, ma la lunga conversazione di una donna con se stessa, di un’attrice con il suo personaggio. E se vogliamo trarne un messaggio, come invita a fare lo stesso Gregoretti, possiamo immaginare che la Boggio voglia dirci: “Dobbiamo sforzarci di essere tutti come Maria”, e per rubare ancora una battuta al testo: “la gente non si rende conto di vivere in mezzo ai miracoli”.




Il Giorno, Milano, 6 agosto 1990

Ugo Ronfani

Donne sull’orlo di una crisi mistica

Una vicenda di fede contadina ben interpretata da Regina Bianchi con la regìa di Ugo Gregoretti

Taormina (...) “Maria dell’Angelo” della Boggio è stato prodotto dall’Apas di Sebastiano Calabrò, che fu con il compianto Bruno Cirino cofondatori di Teatroggi, e ha debuttato all’aperto, alla Villa Comunale, con un regista e un’interprete esperti e famosi: Ugo Gregoretti, che sembra deciso a rappacificarsi con il teatro dopo una parentesi cinematografica, e Regina Bianchi, la pupilla di Viviani, la beniamina di Eduardo, restituita alla scena dopo una dolorosa malattia.
Il teatro di Maricla Boggio, piemontese romanizzatasi, compagna di Lavia alla “Silvio D’Amico”, animatrice negli anni Settanta del Teatro Femminista della Maddalena con Edith Bruck e Dacia Maraini, è sempre stato fedele fin dalle origini (”Santa Maria dei Battuti”, sull’istituzione psichiatrica, 1969, in collaborazione con Franco Cuomo) alle problematiche socio-politiche d’attualità, con impegno civile mai smentito, attenzione antropologica verso le aree di emarginazione e solidale partecipazione. Questo teatro che - ha detto de chiara, col quale la Boggio divide la critica teatrale sull’”Avanti!” – manifesta un appassionato bisogno di intervento sulle questioni dell’epoca (“Mamma Eroina” o “Schegge”, sulla vita dei giovani della Magliana) sarebbe rimasto teatro-cronaca, o teatro-documento, senza la calorosa sincerità di una scrittura via via decantatasi in efficace urgenza espressiva.
“maria dell’Angelo” muove anch’essa da una figura del nostro tempo, quella di una mistica calabrese, Natuzza Evolo, di origine contadine, serva di Cristo, consolatrice degli afflitti, interlocutrice con cielo dei bisogni di quanti a lei ricorrono. Alla base del testo, che si fa subito apprezzare per l’approccio laicamente rispettoso, e che finisce per mettere a fuoco un personaggio di grande spessore spirituale, c’è uno studio sulla Evolo, “Il ponte di San Giacomo”, condotto da Luigi Maria Lombardi Satriani e da Mariano Meligrana (Sellerio Editore), dal quale però la Boggio sa staccarsi per condurre una propria personale meditazione sul dolore umano.
Fra agiografia e dissacrazione, la strada era stretta. Maricla Boggio ha superato l’ostacolo puntando non sul naturalismo, ma sulla naturalezza di questa vicenda di fede contadina, scrutata senza enfasi o scetticismo, con l’intelligenza del cuore.
Ed evitando il dibattito astratto, l’ortodossia catechistica, per mettersi all’ascolto umile delle ragioni di Natuzza, “ancilla domini” tutta presa dalle incombenze domestiche, dall’affanno di non essere ascoltata “lassù”, dai reumatismi: eppure capace, per obbedienza al cielo e per umana partecipazione, di assumere su di sé le piaghe del corpo e dell’anima di un umile mondo del bisogno e della disperazione che gravita intorno alla sua povera casa, le chiede intercessioni, benedizioni, immaginette sacre, parole di conforto.
Ed ecco Natuzza, nella sua disadorna cucina (scena di Autiero), respingere l’assedio di un giornalista pronto a speculare sulla nuova “fabbrica dei miracoli”, eccola fervidamente dialogare, talvolta in brusco contraddittorio, col proprio angelo custode, che la consiglia o la rabbuffa, invisibile, con l’alfabeto Morse delle sfere celesti: un frullare d’ali lassù, dove stanno il soffitto e il Padreterno.
L’invenzione dell’Angelo-passerotto è felicissima, s’accompagna a guizzi di luce, fa del monologo di Natuzza-Regina un trepidante dialogo con l’aldilà mai stravolto da misticheggianti vertigini, sempre impastato di concretezza terrena. A natuzza, timorosa di cadere sotto l’assalto delle invocazioni e delle pene che battono alla sua porta, appare alla fine soccorrevole il Cristo, e la magia della visione è proprio nella sua dimessa quotidianità: un giovane camminante, dal gesto e dalla parola intensi e contenuti, la stessa figura che alla fine impersonerà il reporter ( Roberto Accornero). maria, a quest’ultimo: “Che cosa mi vuoi chiedere?”. E lui: “Per me, prima di tutto”. “Chi sei ?”. “Un uomo come tanti”. “Ti ascolto”.
Regina Bianchi assume questo testo ( che è una limpida trascrizione di una teologia popolare tutta basata – dice la figura del Cristo – sulla forza straordinaria della solidarietà, specchio dell’amore divino) con un’adesione tutta interiore, epperò impastata di quotidianità, e una partecipata chiarezza. Senza mai dare nell’enfasi, Regina conferisce al dialogo con l’Angelo-passerotto la luminosità di una lunga preghiera.
Gregoretti s’è accostato al testo con grande rispetto, con il coraggio di “levare” anziché aggiungere, come dovesse dipingere un’icona in una chiesa di campagna.



La Sicilia di Catania, 6 agosto 1990

Domenico Danzuso

La “mistica” calabrese rivive sul palcoscenico

Applausi per “Maria dell’Angelo” con Regina Bianchi
Taormina . Nella vastissima ( e ovviamente discontinua) produzione teatrale di Maricla Boggio, tutta mirata a un’ansia sociale e spesso supportata da fatti di cronaca interpretati in forma poetica, “Maria dell’Angelo” – proposta venerdì sera da “Taormina Arte 90” alla Villa Comunale nell’ambito della rassegna di “novità” italiane contemporanee – rappresenterà forse un “unicum” del quale occorre prendere atto financo con sorpresa.
Non che quel citato impegno civile sia qui scomparso, ma certo il tema, seppur volto a scoprire umanissime sofferenze, si accosta alla sfera del soprannaturale, del misterioso, di qualcosa insomma che può stare addirittura tra purissima fede religiosa e superstizione, a seconda dell’animo e delle convinzioni di chi vi si accosta.
In questa particolarissima dimensione, la storia vera della”mistica” calabrese Natuzza Evolo, una semplice donna che porta sul corpo le stimmate e che senza nulla sapere di bene e di male, di salute e malattia, riesce non solo a compiere guarigioni, ma soprattutto – ed è il tratto più interessante, il più alto e il più nobile – a dar conforto ai sofferenti e agli afflitti, è vista da Maricla con tremore e timore, razioni queste alle quali forse non è del tutto estraneo Luigi Maria Lombardi Satriani, attivo nella zona per lo studio delle tradizioni popolari, cui – seppur vagamente – il testo sembra accennare.
Certo non sapremo mai se Maricla nell’incontro con la guaritrice sia rimasta folgorata come sulla via di Damasco, il biblico Paolo, ma non possiamo non prendere atto di una nuova e ben originale “pietas” tutta intrisa di spiritualità scoperta in un autore volto a problematiche concrete e talvolta disperate, come quella della violenza, dell’emarginazione e della droga, che hanno sempre fatto da fondamento ai suoi scritti per la scena.
Peraltro si tenga conto allo spettacolo della mediazione semplice, appassionata e soprattutto fideisticamente cristiana di Regina Bianchi, che dell’angelo del titolo sente il frullo d’ali e la parola sommessa, ma autorevole.
Ciò gioverà non solo a sentire in scena il dolore del mondo offeso, ma anche a percepire una speranza e un conforto.
Certo teatralmente nel monologo – che di questo si tratta, nonostante l’intervento di un secondo personaggio simbolo che è Cristo e un sofferente, un giornalista e un operatore tv – si risente una certa staticità e ripetitività, anche se a riscattarla provvedono oltre al magistero di Regina, la regìa essenziale di vibranti luci e di pochi movimenti di Ugo Gregoretti e lievi interventi musicali, presieduti da un flauto delicatissimo e da un dolorante violoncello.



La Repubblica, 6 agosto 1990

Rodolfo Di Giammarco

Regina, eroica Madre

Col pudore di “Maria dell’Angelo”

E’ apparsa Regina Bianchi, su una ribalta rassettata con fregi murali di serti di palma, e in uno stanzone ascetico quanto il cavo di un ex voto meridionale l’attrice ha emanato il suo stupore, ha profuso il suo lungo e devoto mestiere nei panni odierni di un personaggio arcano, di una medium di qualche provincia remota.
Con lei, e in lei, è apparsa la vocazione, la statura di una miracolante che fa prodigi in nome della fede e dei testi sacri non meno di quanto l’artista quieta e autorevole di oggi abbia saputo ieri l’altro attingere al credo eduardiano, a un decoro volto sempre in passione teatrale, in tormento, in solidarietà, in eroismo domestico.
S’è manifestata Regina Bianchi, dunque, sulle assi del palcoscenico al centro della Villa Comunale di Taormina, e il suo intatto carisma di protagonista dotata di mansuetudine ha coinciso più volte con la fisionomia istintiva e semplice, con un prototipo di Natuzza Evolo, la mistica calabrese già studiata e divulgata da Maricla Boggio, la quale ora come a sintesi di ogni altra testimonianza ha composto “Maria dell’angelo”, vale a dire un recitativo, un flusso di coscienza da meditarsi, da confessarsi sulla scena ad opera proprio di quella donna religiosa e veggente, di quella umile figura in odore di trascendenza.
E’ insomma venuto fuori un oracolo dolce, un Tiresia al femminile dei nostri giorni, una Madre Coraggio, che fin dalle prime battute del testo ha scansato l’offerta di fare ennesimamente notizia: al contrario, ha preso sembianze una ritrosa e involontaria guaritrice di gente in pena, una sagoma grigia e immacolata che fa il bilancio dei suoi interventi, dei suoi dubbi, dei suoi turbamenti più intimi. Con la saggezza disarmante dei predestinati, delle anime elette senza fini estranei. E i toni, lo zelo, la lungimiranza di questa Maria si confacevano alla ricerca di senso, al pudore espressivo che la Bianchi va scavando da anni nella sua professione ad ogni suo gradito ritorno sotto i riflettori. E’ diventato quindi spettacolo, grazie a un’attrice di tale glorioso e lungo corso, il copione, la “novità italiana” della Boggio, autrice di cui conosciamo bene l’impegno sociale e l’inesausta scrittura.



Espresso Sera, 7 agosto 1990

Gaetano Caponetto

Sguardo mistico di Natuzza sul Mistero della sofferenza

Dai percorsi antrologici prossimi a noi, Maricla Boggio preleva la figura di una mistica calabrese, Natuzza Evolo, per il suo monologo “Maria dell’Angelo” (...) e non è costretta a fare nessuno sforzo per sporgersi dalla sua finestra di intellettuale e di artista, particolarmente volta nel sociale, sull’interiorità religiosa del personaggio; non solo perché l’autrice ha la capacità di ogni buon antropologo di mettersi nel campo situazione della realtà da rappresentare, accettando i valori di quel “fuoco culturale” che esprime i fenomeni da partecipare e captare; ma perché il personaggio stesso ha quel tipo di esperienza mistica nutrita di contadina sapienzialità e persino di popolare realismo, per cui il gorgo ineffabile dell’interiorità anela a riversarsi ( e coi colori del vero) nella vita di tutti i giorni, soprattutto nella quotidianità del bisogno, del dolore, della sofferenza fisica, che poi sono cose che hanno una loro tragicità ineffabile ed insondabile, proprio come il grido estatico del “raptus” e dell’”excessus mentis” di chi vola a Dio.
Per chi abbia nella mente certe figure di mistiche medioevali, soprattutto le più ignote, radicate profondamente nella realtà dei popolani e dei giullari, delle brigate e delle donnette, audacemente pronte a colluttare con papi, vescovi, santi e persino con Dio, risulterà credibile questa figura di Natuzza della realtà antropologica che la Boggio porta a noi, terragna e popolana anche se della trasfigurazione della Boggio di questa densa materia resta suggestivamente il precipitato ( o in questo caso si dovrebbe chimicamente dire il sublimato poetico).
Anche natuzza collutta con Dio, magari sprofondando umilmente nell’abisso della vergogna e del rimorso, ogni volta che esso si rifiuta alla teodicea di una mente superiore che in certi attimi non trova spazi di comunicazione e dialogo nel suo cuore.
Del resto Natuzza non sa ( e non può sapere per la natura stessa della sua esperienza) quanto sospetto di “gnosi” ci sia nella sua religiosità, con un Dio padre ( che poi è più riverito, temuto che amorosamente partecipato), un Cristo quasi “icone” intermedio ed intermediario tra divino e terreno, e la schiera di angeli ( con in prima fila il suo angelo) che sono annunciatori – come vuole la semantica cristiana del greco – ma anche mediatori e trasmettitori di energia spirituale. Natuzza sa solo che Dio le parla con quell’Angelo, anche in nome del Cristo, e questa presenza quotidiana raramente si esula nelle vaporizzazioni del trascendente, ma ha i toni realistici di tutti i giorni, con un affetto materno di natuzza verso l’Angelo che conosce i toni di una grazia comica tipica delle donne del popolo ma naturalmente anche i trasporti erotici che sempre strutturano nel labirinto mistico i percorsi dell’”amor Dei”.
C’è una grande apertura dal proprio universo mistico al cosmo del dolore umano, ma anche ai piccoli, deliziosi, buffi, gioiosi atto che scandiscono i cari percorsi domestici e la vita comunitaria del paese ( per esempio nella gioiosa atmosfera della festa nuziale).
C’è molta finezza nella Boggio – ma anche per l’energia umana che promana dal personaggio stesso qual realmente è, o quale lo ha visto l’autrice – di insinuarsi nelle pieghe dell’anima e negli interstizi di vita di Natuzza sporgendosi nella sua esperienza religiosa senza alcuna compromissione vischiosa ma anche senza anche senza alcuna sospettosità o presupponenza “laica”, semmai con quella “complicità” di scritti “al femminile” che permette di catturare i dati esistenziali e sociali radicati in un’esperienza che, pur sempre presuppone l’esser donna, un piccolo ma concreto “Daswein”, un “esserci” nel mondo.
Allora si capisce con quale naturalezza la Boggio possa rinvenire nel mondo di Natuzza problemi a sei sempre presentati come quello della droga ( in “Mamma Eroina”), accanto a quelli che riguardano la filigrana più umana del vivere sociale.
Il regista Ugo Gregoretti si è accostato alla ricercata elementarità di questo monologo con un grande rispetto e forse con una interiore vibrazione emotiva, non solo rinunciando ai lenocini del “metteur en scène” che deve “puntellare” un testo scenicamente quintessenziato, ma addirittura rifiutando le soluzioni che anche a lui saranno apparse più praticabili: l’evidenziazione dei piani dialogici ( nei colloqui con l’angelo) impliciti nel monologo, ed anche parcamente utilizzando le (belle e significative) irruzioni del reale nella nuda stanza di Natuzza.
Ecco, la linea registica di Gregoretti è sostanzialmente affidata alla bella scena che Francesco Autiero ha concepito in felice integrazione con l’idea registica.
Non solo quella casa scoperta nel tetto, con una sorta di “impluvium” da cui continuamente cala con brividi elettronici la voce dell’angelo e del trascendente: ma quella porta che immette nella vita comunitaria ed è anche la soglia dell’”oltre”, che quando si svela lo fa con abbagliante luce mistica.
C’è ovviamente un accorto uso, sia psicologico che evocativo delle luci, delle musiche di Nicola Sani che danno vibrazioni sottili al flauto ed al violoncello.
Nella nudità di quella stanza, con le sue poche ma importanti “aperture”, Regina Bianchi si accosta come Natuzza, con attesa e tremore, a questa vicenda umana che trabocca nel mistero, e dopo una vita in cui ha affinato la differenza tra naturalismo e naturalezza, trova un distillato di emozioni affidandosi con castità a pochi gesti fisici e vocali, cogliendo le più deliziose inflessioni popolari del personaggio e la sua intensità religiosa, non visionaria e vertiginosa ma domestica e concreta.
Anche lui coi costumi di Mariolina Bono, era nei panni dell’operatore – Cristo e un giornalista – Roberto Accornero, che la Bono aveva rivestito di arcane allusioni a differenza del dimesso vestito di Natuzza.
Successo di consensi, di applausi e di chiamate, ma soprattutto una scrittura drammaturgica e scenica perché noi uomini del Terzo Millennio riflettiamo sul Mistero del dolore umano. con fede, molta fede, qualsiasi essa sia. Anche quella dell’estensore di queste note, che da laico coerente ma non ottuso cerca a suo modo il “sacro”.



Corriere della Sera, 8 agosto 1990
Pietro Favari

La rassegna teatrale si è aperta con un testo di Maricla Boggio ispirato alla vita di una religiosa calabrese
C’è un’altra faccia delle quinta ( o sesta) potenza economica del mondo: un’Italia vergine di griffe, di fax, di look, di yuppies, di postmoderno e di postindustriale; un’Italia ancora legata a valori preindustriali e premoderni, atavica e contadina, irrilevante per esperti di marketing e di comunicazioni di massa, ma ricchissima di stimoli per gli studiosi di antropologia e di etnologia.
E proprio da una sua inchiesta televisiva su di una mistica calabrese, Natuzza Evolo, condotta con la consulenza di Luigi M. Lombardi Satriani, Maricla Boggio ha ricavato un testo, “Maria dell’Angelo”, che ha inaugurato alla Villa Comunale la Rassegna di Taormina Arte.
“maria dell’Angelo” stempera l’oggettività distaccata della ricognizione etnologica nelle emozioni stimolate dalla contemplazione dell’ingenua sincerità di ex voto, tramite iconografico fra realtà quotidiana e dimensione metafisica – la descrizione della vita nei campi o sui mari sovrastata dall’intervento miracolistico del Santo o della Vergine – che nel nostro Meridione tende a un sincretismo dove si conciliano cattolicesimo e paganesimo, fede e superstizione.
Anche Maria si propone come tramite tra i dolori antichi e nuovo, la malattia, ma anche la droga, di un’umanità diseredata e le parole che le suggerisce un angelo; il suo monologare – a tratti interrotto da un celestiale battito d’ali e insieme dall’arrivo di un Cristo, povero cristo, in scarpe da tennis – si propone appunto come una collezione di ex voto, un rosario dolente di piaghe materiali e spirituali.
Autrice sempre coinvolta da una scrittura di impegno sociale e politico, Maricla Boggio accredita alla sua guaritrice debitamente fornita di stigmate la forza emblematica dell’emarginazione, una valenza anche politica e destabilizzante, che è prerogativa del misticismo popolare e che De Martino contrapponeva al dettato consolatorio della religione ufficiale ed egemone.
La regìa di Ugo Gregoretti ha assecondato la vocazione all’impegno non solo spirituale di “Maria dell’Angelo” con un allestimento nitido e intenso, estraneo a tentazioni e compiacimento folclorici, che si avvale della sobria interpretazione, commossa e commovente, della carismatica Regina Bianchi, accompagnata nel finale dall’apparizione di Gesù in abiti moderni interpretato con giusta misura da Roberto Accornero.

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