Olimpia Teresa Carlotta
la Rivoluzione condanna tre cittadine
Nota al testo
Franca Angelini

La prima domanda che la lettura di Olimpia Teresa Carlotta pone riguarda il genere teatrale in cui iscrivere questa pièce; questione tutt’altro che esteriore o semplicemente nominalistica perché serve invece a capire alcune delle sue motivazioni e alcuni dei suoi connotati.
Si tratta di un dramma storico, di un dramma didattico alla maniera brechtiana oppure sì tratta di una serie di tableaux vivants, alla maniera delle feste durante la Rivoluzione francese?
Inutile dire forse che questi generi vengono indicati perché presenti tutti e tre nel dramma di Maricla Boggio; ed inutile forse indicare nel tableau vivant il riferimento più certo, che meglio caratterizza questa drammaturgia; una drammaturgia che dalla ragione illuminista scava così l’esempio che il nascosto e il non detto, così la luce che l’ombra, così il sole che la notte dei mostri goyeschi.
Si pensa in primo luogo alla teoria diderottiana dei quadri viventi oppure ai suoi Salons, al suo modo di leggere i soggetti figurati, i quadri e le illustrazioni come storie che si autorappresentano, figure cariche di significati condensati.
Nasce di qui l’idea che la Rivoluzione francese deleghi alle piazze il teatro, con le sue cerimonie reali e i suoi drammi vissuti, mentre confida alla scena i suoi simboli e i suoi emblemi; una scena allegorica dunque, rassicurante e pacifica, contro il teatro della ghigliottina e della distruzione della Bastiglia. Un teatro nella realtà contro una scena senza realtà e solo simbolica.
Olimpia Teresa Carlotta inquadra tre episodi della Rivoluzione francese, tre figure, tre anti-eroine (eroiche) della Rivoluzione francese esattamente nel modo in cui l’avrebbe fatto un drammaturgo della Rivoluzione francese se avesse avuto la distanza giusta verso l’oggetto della propria rappresentazione.
Si tratta infatti di guardare; di guardare un quadro che prende vita e ridiventa un quadro. Si tratta di costruire simulacri, immagini sacre con cui entrare in rapido folgorante contatto prima che si spengano bruciate dalla loro pregnanza.
In quale altro modo infatti potremmo oggi ricordare luoghi e personaggi su cui è depositata quella polvere dorata che il tempo e il culto accumulano sui momenti fondamentali della nostra storia e sui nostri feticci immaginari?
Ma la lettura di Olimpia Teresa Carlotta pone un secondo quesito: perché scegliere tre vittime della ghigliottina, perché tre donne, perché tre rappresentanti - sia pure in modo diverso - di una nobiltà sociale o intellettuale, tre figure dì un’élite?
Perché certo che la scelta di tre donne vittime della Rivoluzione, e la sottolineatura del loro destino femminile, toglie ogni ottimismo celebrativo a quell’evento e nello stesso tempo celebra un’utopia della liberazione che certo non avremmo senza quella Rivoluzione. Perciò abbiamo prima parlato di un dramma didattico ed abbiamo ricordato Brecht, il drammaturgo della dialettica.
Ma ancora: da che parte sta questo dramma didattico, dove mirano questi tableaux vivants languidi e crudeli, da quale luogo deriva lo sguardo che li anima? Non esiterei a rispondere che tale sguardo è anzitutto uno sguardo di donna e che il suo luogo è il nostro oggi, la nostra continuità-differenza rispetto a quei destini.
L’Ancien Régime, la Rivoluzione, il Terrore sembrano lontanissimi; ma il mondo borghese è ancora il nostro, utopie di cambiamenti radicali, di uguaglianza e di libertà sono ancora le nostre; ancora nostre sono le teorie della violenza, i limiti che esse impongono alla libera convivenza e i loro mille travestimenti.
Tuttavia quanto rende preziosi questi tableaux è la nettezza dei profili come incastonati su medaglie o monete; è il predominio del corpo femminile animato dal contatto con gli oggetti-feticcio del XVIII secolo, un’arpa, una lettera, un quadro, un cappello ornato di rose. Questi corpi parlano e ricordano le loro storie di donne; l’eros negato, la maternità, i gesti violenti della liberazione, impugnare un pugnale o scrivere.
Teresa, Carlotta, Olimpia, tre ombre: della Regina, di Marat, di Robespierre, che conquistano il palcoscenico e la sua luce, che raccontano il loro destino e il senso della loro vita; la devozione della cortigiana, l’eroismo antitirannico plutarchesco o alfieriano di Carlotta (così complementare a quello del suo nemico), l’anticonformismo dell’intellettuale che scrive il teatro, che sogna una dichiarazione dei diritti della donna, che sì presta a un simbolico connubio col suo carceriere.
Pensiamo alla distanza tra questa pièce e quella di Peter Weiss dedicata a Marat, a Carlotta, a Sade; lì la violenza era rivoluzionaria: e Carlotta una mistica semiaddormentata. Qui invece la violenza è momento conclusivo di un processo, è morte senza prosecuzione se non come emblema: “Lascio... la mia anima alle donne... il mio di interesse agli ambiziosi, la mia filosofia ai perseguitati...” recita il testamento di Olimpia prima di chiedere vendetta ai ragazzi di Francia.
E tuttavia: decapitare tre donne significa riconoscere il valore delle loro teste.

Nota di regia

Franco Gervasio

Olimpia, Teresa, Carlotta è il testo sul quale ci siamo impegnati, insieme a sensibili e dotate attrici, a scandagliare le possibilità interpretative contenute nella forma di scrittura teatrale che si chiama “monologo”. Sono infatti performances d’attrici, quelle che Maricla Boggio ha scritto ispirandosi a tre personaggi realmente esistiti.
E’ un’occasione per lavorare concentrati, per occuparci dei problemi interpretativi, in un certo senso solamente di quel terreno vivo che è il personaggio, senza dover “allestire” uno spettacolo, senza che la “regia” dello spettacolo appunto, sottragga energie ad un quadro economico ristretto ma coerente. Cercheremo di tradurre quindi la scrittura in scrittura scenica all’essenza di se stessa, di dare, se ci riusciremo, alla scrittura d’autore, altri autori/autrici, esercitandoci a produrre quell’osmosi che dovrebbe essere una delle ragioni e delle forze del fare teatro, del ricercare. E il Festival di Todi è il quadro da cui nasce la proposta e in cui confluirà il risultato.

Spettacoli:
Sala del Capitano del Popolo
Sabato 2 settembre, ore 18
Domenica, 3 settembre, ore 20
Lunedì, 4 settembre, ore 20

domenica, ore 11,30, si terrà un seminario su

“Il teatro della rivoluzione francese ieri e oggi”
relatori:
prof. Franca Angelini
ordinario lett. italiana Università “La Sapienza” di Roma; prof. Cesare De Michelis
ordinario di lett. italiana Università di Padova; dott. Beatrice Alfonzetti
studiosa di teatro del Settecento.
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Nota dell’autrice

Le donne hanno una meravigliosa capacità di sentimento. Al di là delle conflittualità storiche e sociali, un’interiore capacità d’amore le fa muovere, spingendole al sacrificio di sé. Della Rivoluzione Francese ne ho scelte tre.

MARIA TERESA DI SAVOIA CARIGNANO, PRINCIPESSA DI LAMBALLE: una nobile italiana, educata in modo spartano, addolcito dagli affetti di una famiglia più borghese che regale; sposata in Francia ad un principe e subito vedova; confidente di Maria Antonietta che la nomina sovrintendente di corte.
Pettegolezzi ed invidie ne penalizzano la carità verso i poveri, la castità schiva di frivoli amori, la coerenza nell’amicizia. E per onestà, bisogna dire che è anche un po’ scioccherella. Al nascere della Rivoluzione mostra alla Regina in pericolo una solidarietà che questa non ha meritato, negandole il suo favore. Scatta anche per lei, a causa di tale abnegazione, la condanna: la dolce principessa fedele viene squartata e fatta a pezzi da un gruppo di popolani inferociti, in un delirio bacchico che nulla ha a che fare con un rinnovamento politico e sociale.
CARLOTTA CORDAY: una ragazza di famiglia piccolo-borghese di provincia, affezionata ai genitori ed agli amici della sua cittadina, dove arrivano le pagine de “L’ami du peuple” su cui Marat lancia le sue esortazioni alla violenza purificatrice. La moltiplicazione di assassinii che deriva dall’impulso teorico alla furia omicida in tutta la Francia induce la ragazza a decidere lei stessa dì uccidere per porre fine al massacro; il fanatismo ideologico di allora risulta un forte richiamo al nostro oggi appena trascorso, ed altrettanto la reazione della discepola che si fa carnefice, “per dovere morale”, del teorico dell’assassinio, che ha aperto la strada non ad un mondo più giusto ma ad una catena inarrestabile di delitti. A Carlotta, che voleva una rivoluzione senza morti, viene tagliata la testa.
OLIMPIA DE GOUGES: povera bastarda di campagna, sposata adolescente ad un vecchio oste, appena vedova emigrata a Parigi, attrazione dei salotti nel fervore prerivoluzionario; fatta ricca dagli amanti e messa di fronte alla rivelazione della cultura e dell’intervento, scrive commedie che entrano nel vivo delle contestazioni sociali - schiavitù dei negri, voti forzati - che la Rivoluzione al suo nascere ha alimentato; affronta poi, nei “pamphlets”, senza la mediazione della metafora, le ingiustizie che, a dispetto della “déclarations”, sono rimaste ancora numerose: la discriminazione delle donne; i vecchi abbandonati; la disoccupazione e la mancanza dì assistenza, le cause insomma dei più deboli e diseredati. Nell’impeto di questa intransigenza morale esclude perfino la pena di morte nei confronti del Re, che difende, nel processo, dalla ghigliottina purché venga detronizzato: principio moderno, al di là dei tempi; la sua arma sono gli scritti, attraverso un argomentare diretto - detterà sempre ogni suo pensiero ad un segretario che la segue come un’ombra - che non conosce diplomazie o principi di autorità. E’ un ardore, il suo, che dà fastidio a chi deve salvaguardare le nuove ragioni di stato: Robespierre, potente ancora per qualche mese prima di essere ghigliottinato a sua volta, la accusa di attentare alla sicurezza della nazione per mezzo dì quegli stessi pamphlets più volte ridicolizzati dall’Assemblea: il Tribunale giudica fondata l’accusa, la sua testa cadrà. Ma non cede neppure nell’attimo estremo: “Ho voluto essere qualcosa” sono le sue ultime parole di irrimediabile ribelle.
Non si confessano al pubblico, queste tre, secondo lo stile classico del monologo. Ognuno sviluppa da sé un referente che le si addice per carattere, classe, sentimento: la Regina per Maria Teresa; il pittore dell’ultimo ritratto per Carlotta; il carceriere, forse amante, per Olimpia. E ognuna delle tre si svela nell’attenzione partecipe dell’invisibile interlocutore muto. Il linguaggio è quello della confidenza. Fuori da riferimenti storici o letterari, sono donne che si raccontano, si confessano e rivivono momenti di vita: differenti dagli uomini, finalizzati sempre e comunque al potere.
Questa rivoluzione ci appartiene se la ripercorriamo per ideali e contrasti, contraddizioni e contingenti situazioni individuali, da sentire fragilmente nel momento in cui i fatti non sono ancora stati elaborati attraverso riflessioni successive: teatro come vita, il vecchio tema; e naturalmente, vita come teatro. Purché in chiave di metafora, s’intende.

Mc. B.

BUIO. SUONO D’ARPA. ACCORDI. UN CANTO DOLCISSIMO, DI UNA CANZONE ITA-LIANA, DEL 700. UN RAGGIO DI LUCE COLPISCE UNA TESTA FEMMINILE - LEGNO O CERA - DIPINTA A COLORI NATURALI DA PARER VIVA. I LINEAMENTI DI MARIA TERESA DI LAMBALLE, FINI, OCCHI AZZURRI, PARRUCCA BIONDA MOLTO ELABORATA, UN CAPPELUCCIO DI PAGLIA CON DEI FIORELLINI.
BUIO.
LUCE GRADUALE SUL PALCOSCENICO - SPAZIO BIANCO - IN CUI APPARE
MARIA TERESA IMPERSONATA DALL’ATTRICE, CON ACCONCIATURA IDENTICA A QUELLA DELLA TESTA INANIMATA, CON UNA LETTERA.
DI LATO, UN’ARPA.

MARIA TERESA (legge con crescente agitazione) “10 agosto 1792. Maria Teresa! Non rimanete un’ora di più a Parigi se volete salvare la vostra vita. Il cavaliere che sapete vi farà partire per il Piemonte, dove troverete la vostra famiglia. Vostra affezionatissima Maria Antonietta”.
Oh! Con quale rischio la regina mi manda a dire la cura che ha per me!... Ma io non la abbandonerò. Voglio cercare di farglielo sapere!...

MARIA TERESA SUONA MELODIOSAMEYTE L’ARPA. SI INTERROMPE. RIPRENDE A SUONARE. SI INTERROMPE UNA SECONDA VOLTA. RIPRENDE LA MELODIA E PER LA TERZA VOLTA SI INTERROMPE. RIMANE IN ATTESA, PROTENDENDOSI AD AFFERRARE QUALCHE SUONO. SI AVVERTE IN LONTANANZA SUONARE LA STESSA MELODIA DA LEI ACCENNATA CON L’ARPA, CON UNA SPINETTA. MARIA TERESA HA UN SUSSULTO DI GIOIA.

MARIA TERESA Oh! La regina mi ha sentito!

SI AVVICINA ALLA PARETE. GRIDA ACCOSTANDO LA BOCCA AL MURO.

MARIA TERESA Regina! Maria Antonietta! Queste mura non lasciano passare che la
musica... Le nostre voci rimangono mute...

PICCHIA SULLA PARETE CON I PUGNI. DALL’ALTRA PARTE RISUONANO DEBOLMENTE ALTRETTANTI COLPI.

MARIA TERESA Non devono trovarmi in possesso di questa lettera. Sarebbe una prova contro la regina. In questo palazzo siamo confinate come in una prigione.

TIRA FUORI UN FOGLIO E UNA PENNA CON UN PICCOLO CALAMAIO.

MARIA TERESA Le risponderò... Speriamo che qualcuno a me ancora fedele le porti questo biglietto...

MENTRE STA PER COMINCIARE A SCRIVERE LA COGLIE UN PENSIERO. COME UNO SVENIMENTO. UN TORNARE INDIETRO IN UN VORTICE DELLA MEMORIA. LA REGINA DIVENTA PER LEI UNA PRESENZA A CUI PARLARE, NEL DISPERATO BISOGNO DI COMUNICARE.

MARIA TERESA Mia regina, stiamo tutte e due per lasciare la vita... Come un vestito troppo usato e non più degno dì noi... Sono passati venticinque anni da quando ho lasciato la mia famiglia e l’Italia per la corte di Francia. Prima, un’infanzia di giochi, di confidenze in una casa più borghese che nobile, mia madre come una bambina, felice di rincorrerci nella campagna vicina a Torino, con i miei fratelli maschi, senza coscienza di sesso... Poi l’educazione nel collegio delle suore, la chiusura al mondo dei giochi, l’attesa di qualcosa che non capivo, destinato a me donna e non più spensierata creatura. E a diciotto anni, la notizia. “Devi partire, dice mio padre, siete troppi in casa, per voi ragazze poi non ho dote, spendiamo tutto in armi noi Savoia, è tradizione del casato...”. Voi eravate ancora una bambina, Maria Antonietta, a Vienna, e io già mi sposavo. Mi diedero via per niente. Erano già contenti dì mandarmi fuori di casa e di aver legato i Savoia a un nome altisonante, Lamballe! I miei si beavano di quel nome. Io e mio fratello Vittorio Amedeo che risate ci siam fatti su “Lamballe”! Lo pronunciavamo riempiendocene le guance come in una scorpacciata e poi lo buttavamo fuori tra risa e gridolini soffocati... Arrivammo alla cerimonia. Lo sposo non era venuto a Torino. Alle nozze per procura era Vittorio il mio promesso. Dopo la benedizione lui dovette entrare con una gamba nel gran letto dove mi avevano adagiato, vestita, con le scarpe il velo e lo strascico... Io con due dita senza farmi accorgere lo pizzicai... non mi vedeva nessuno perché il letto era invaso dalle sete e dai merletti, lui tratteneva a stento la voglia dì farmi le boccacce. Quella storia della gamba serviva a considerare valido il matrimonio anche se non fosse stato “consumato”, mi disse poi mio padre, e così avrei avuto diritto ai soldi di mio marito... Io non mi ero ancora resa conto che la mia vita da quel momento cambiava completamente. Amavo la mia città, la gente per le strade mi riconosceva ed io mi sentivo sicura, protetta... Nella nebbia che tante volte d’inverno cancellava le sagome dei palazzi io andavo in giro pregustando il caldo rassicurante di casa mia. La partenza troncò ogni antica consuetudine. Pensavo di andare incontro all’amore come speravo che fosse... un principe che mi adorasse per tutta la vita. Ma in quel momento era lo strazio del distacco, le lacrime di mia madre, il silenzio imbarazzato di mio padre, gli applausi della gente che vedeva passare la carrozza. Per fortuna Vittorio Amedeo mi accompagnava. Quando la commozione stava per vincermi, gli strizzavo l’occhio, allora lui alzava la gamba per farmi ridere... Abbiamo passato le Alpi, ma la campagna continuava ad essere come da noi, anche se eravamo in Francia! Parlavano una lingua un po’ diversa, ma a corte la usavamo anche noi, e così capivo tutto... Ci siamo fermati, dei contadini ci hanno offerto del latte, io avevo sete e l’ho accettato volentieri.., ancora adesso ne ricordo il sapore, fresco dolce... Poi viene avanti un ragazzetto grazioso, biondo, vestito da paggio; mi fa un inchino, mi offre un mazzolino di fiori.., e io sorrido, mentre penso: “Ma che bei paggi vivono in questi boschi!” e poi: “Chissà se sarà così grazioso il mio sposo, speriamo di sì perché ormai l’ho sposato anche se ho toccato solamente la gamba di mio fratello...”. Il paggio mi cerca gli occhi guardandomi fisso in modo da farmi arrossire, impudente specie per un ragazzo del popolo; poi sale sulla carrozza accanto a me, mi mette una mano sul seno, l’altra me la insinua tra le vesti proprio lì dove mi avevano insegnato che nessuno doveva toccare... E allora io faccio un guizzo indietro cercando di sfuggire a quella presa; ma il paggio mi tiene stretta e mi rovescia indietro la testa fino a piantarmi in bocca un bacio che rischia di soffocarmi. Resto nelle sue braccia paralizzata dalla meraviglia mentre quel bacio mi invade a poco a poco fino a condurmi in una sorta di piacevole sopore: sotto l’influsso di quell’abbraccio il mio corpo si lascia andare sempre più docilmente, e a un certo punto a quel bacio non mi oppongo più, mi ci lascio guidare con delizia, vergognandomi un poco per quell’accondiscendere a sensazioni sconosciute e piacevoli, quindi proibite. La corte che mi accompagnava non mi aveva difesa da quell’attacco improvviso, e io cominciavo a rendermene conto con stupore. Poi il paggio si stacca dalle mie labbra e mi prende per mano; e tutti applaudono gridando: “Viva i principi di Lamballe!”: il paggio era il mio sposo travestito, mi era venuto incontro da Parigi, impaziente di capire quanto gli sarei piaciuta. Purtroppo quell’inizio così bello ebbe un seguito breve. Passato il gusto della novità, il principe mi lasciava a casa a tener compagnia al padre vedovo, che si angustiava per le sue avventure con donne di ogni tipo, delicato di salute com’era. Avevo diciotto anni e vivevo già come una vedova. Parigi rideva delle “liaisons” di mio marito e compiangeva la mia giovinezza. Un giorno mio suocero mi riportò i diamanti ereditati da mia nonna, che mettevo soltanto andando a corte: il mio sposo se ne era impadronito forzando il mio cofanetto, quelle gemme avevano brillato per una notte al collo di una puttana: rendendosi conto del valore dei gioielli, la donna li aveva consegnati al principe, nel timore di vedersi accusare di furto. Da allora valanghe di giorni tutti diversi eppure tutti uguali, vuoti per la mancanza di un amore vero... Poi arrivaste voi, Maria Antonietta, dalla corte di Vienna, per sposare il Delfino. Vostra madre si chiamava come me, Maria Teresa, e mi voleste subito accanto a voi. Vi insegnai le usanze del Palazzo, vi misi in guardia dalle dame maligne... Ogni mattina venivo nei vostri appartamenti e vi aiutavo a vestirvi, non avevo bambini, quando vennero i vostri li curai come miei. Mio marito era morto sei mesi dopo il matrimonio. Negli ultimi giorni soffriva come un animale, si dibatteva senza ritegno lamentandosi e piangendo. Non voleva morire, mi supplicava di aiutarlo e tra le lacrime mi chiedeva di perdonano. Che cosa potevo fare? Lo perdonai, e morì sereno. Quando diventaste regina, mi avete dato incarichi importanti. Io non ero ambiziosa né frivola, non avevo amanti, ché il trauma di trovarmi accanto un uomo malato e vizioso come mio marito mi aveva privato di ogni possibile desiderio nei confronti di altri uomini. Diventai la vostra confidente più fedele e sicura. E voleste nominarmi sovrintendente del palazzo. Era un lavoro duro, altro che vita spensierata e occupazioni frivole, come pensano i nostri accusatori. Dovevo mandare avanti la complicata organizzazione dei ricevimenti, decidere i pranzi, le cerimonie in onore delle personalità straniere... Intorno mi ruotava una ridda di personaggi equivoci che tentavano di speculare, di intriganti che si accaparravano gli appalti e corrompevano la servitù e i funzionari di palazzo... E non era tanto la povera gente quanto quelli che stavano già bene a volersi arricchire ulteriormente ai danni dello Stato... Io pensavo che si sarebbe dovuto far giustizia, ma che cosa ero in grado di fare io, donna e per di più straniera? Voi eravate affettuosa con me, ma non capivate le sofferenze degli altri, eravate troppo presa dalla vostra voglia di godervi un po’ la vita e avevate le vostre preoccupazioni, e un marito distratto che non si curava di voi. La gente d’inverno a Parigi moriva di fame e di freddo. Vendetti l’argenteria di casa e distribuii il ricavato ai più miserabili. I soldi sparirono in un attimo, non avevo più niente io e non avevano più niente loro. Ma almeno per un momento erano stati meglio, e a me bastava. Da quel giorno in casa usammo piatti e pentole di rame. Rischia di intossicarmi per una casseruola non pulita, qualcuno disse che mi avevano avvelenata: era stata la regina, stufa di me, che aveva deciso di uccidermi... Ma voi, Maria Antonietta, siete rimasta notte e giorno ad assistermi: mi avete voluto bene, mi amate ancora altrimenti non mi avreste scritto di partire e di lasciarvi da sola. Per questa prova che mi avete dato, io vi amo ancora di più.

SI STACCA DALLA PARETE, USCENDO DALLA FORMA DI COMUNICAZIONE IMMAGINARIA CHE HA ANIMATO IL SUO MONOLOGO.

MARIA TERESA Oh, devo dirglielo! Il suo amore è la sola cosa che mi sostenga, insieme all’onestà della mia coscienza.
(scrive febbrilmente)
“Mia regina! Sono umiliata di dovervi disobbedire, ma non vi abbandonerò mai. Non pensate alla mia vita! Sono una Savoia e non posso fuggire: ormai poi sono francese e ho il dovere di non abbandonare la mia regina!”...

COLPI VIOLENTI DA FUORI.
MARIA TERESA PIEGA IN FRETTA IL FOGLIO E LO NASCONDE DENTRO ALLE FESSURE DELL’ARPA.

MARIA TERESA Se trovano le lettere accuseranno la Regina di volermi far fuggire...

I COLPI SI INFITTISCONO. VOCI CONCITATE.

VOCI Cittadina Maria Teresa! Aprite, in nome del popolo!
MARIA TERESA (a voce alta)
Io qui sono chiusa. I miei carcerieri tengono le chiavi. Questo palazzo è diventato una prigione...
VOCI Noi possiamo giudicarvi senza tribunali. Cittadina Maria Teresa, giurata di volere la libertà e l’uguaglianza! Giurate dì odiare il re, la regina e la monarchia!
MARIA TERESA Posso fare il primo giuramento. Il secondo non posso, perché è contrario al mio cuore.
VOCI A morte allora! A morte!
MARIA TERESA Come potrei odiare chi mi ha beneficato? Se fossi nata tra voi avrei patito la povertà, ma non può diventare colpa la mia condizione. Nel mondo regna l’ingiustizia, ma per quanto ho potuto, ho cercato di aiutare chi aveva bisogno. La mia coscienza è in pace.
VOCI La tua colpa è già nella tua nascita! A morte!
MARIA TERESA E’ questa la vostra uguaglianza? Anche voi giudicate ingiustamente e non ve ne rendete conto...
VOCI A morte! A morte!

LE URLA AUMENTANO. BUIO.
LE LUCI SI RIACCENDONO CONCENTRATE SU ALCUNI PUNTE: LA TESTA DI MARIA TERESA. UNA MANO. UN PIEDE DENTRO UNA LEGGIADRA SCARPINA.
UN CUORE: OGNI PÀRTE STA INFISSA SU DI UN’ASTA. VOLTEGGIANDO CALA IL VELO CHE CIRCONDAVA LE SPALLE DI MARIA TERESA E SI ADAGIA. ULTIMO APPARE IL MAZZETO DI FIORI DI CAMPO. SUONO D’ARPA.

VOCE DI MARIA TERESA (in un sussurro) Quei fiori del paggio... Li ho sognati per tutta la vita... La gioia è svanita in un attimo... La storia ha momenti crudeli. In quest’arpa dopo cent’anni le lettere che vi nascosi, ritrovate, vi hanno fatto conoscere la vicenda di Maria Teresa.

BUIO.

UN RAGGIO CONCENTRATO SULLA TESTA INANIMATA DI CARLOTTA CORDAY. BELLA RAGAZZA DALL’ARIA CAMPAGNOLA.
BUIO.
LUCE A DIFFONDERSI SULLO SPAZIO BIANCO, IN CUI APPARE CARLOTTA IMPERSONATA DALL’ATTRICE.
DI LATO UN CAVALLETTO DA PITTORE, SORMONTATO DA UN AMPIO FOGLIO.
DIETRO VI SI IMMAGINA IL PITIORE, A CUI CARLOTTA SI RIVOLGERA’.

CARLOTTA Hauer. Non siete francese, almeno d’origine. Per questo forse avete manifestato interesse verso di me, senza temere di passare per mio complice.
(Carlotta si è un poco mossa nel parlare. Torna nella posizione fissa di prima, muovendosi lievemente nei tratti)
Oh!, non mi agiterò più, ve lo prometto. E’ difficile farmi il ritratto, sono irrequieta, lo so... Ma provate a pensarvi nella mia situazione... E se viene male questa volta, non ci saranno più occasioni.
(Ride di un riso ironico, violento)
Se meritassi la ghigliottina, non sareste qui a disegnare il mio viso. Ho ucciso un uomo, sì, ho ucciso un uomo perché sentivo il dovere morale di ucciderlo. Potevo dirlo davanti al Tribunale? Mi avrebbero presa per pazza.
(Ride di nuovo, ma con mestizia)
Qualcuno avrebbe voluto che mi giudicassero pazza. Amici girondini, per salvarmi. Ma io voglio pagare il mio debito a questa società corrotta... Scusatemi, mi sono lasciata di nuovo prendere dall’ira. Vi prego, non dipingetemi coi tratti induriti. Vorrei che restasse di me un’immagine dolce e piena di gioia, come sarei stata nella vita se non avessi dovuto essere diversa...
(Sorride appena e rimane silenziosa in quell’atteggiamento per qualche istante. Poi di nuovo i pensieri le impongono di riprendere a parlare)
Stavo bene, al mio paese. Leggevo Plutarco, la storia romana mi piaceva, le figure dei condottieri, i vendicatori di ingiustizie... Sì, preferivo quelle letture ai ricami del corredo... non pensavo a sposarmi, i ragazzi della mia età li trovavo noiosi. La rivoluzione mi conquistò dì colpo: la amai subito, perché sentivo che qualcosa avrebbe cambiato, anche per me donna...: potevo combattere in nome di una causa. Lottare per delle idee, quelle che mi erano nate dentro, di fronte alla discriminazione di cui mi sentivo oggetto... Noi in campagna non capivamo bene quanto stava succedendo a Parigi. Ma l’idea dell’uguaglianza e della fraternità, il desiderio di giustizia ci prese tutti con entusiasmo! Ho pensato che avremmo continuato così fino alla costituzione di un nuovo ordine e alla realizzazione di quell’utopia in cui credevamo...
(ride isterica, lucida)
Il giudice mi ha chiesto se “prima” avevo fatto qualcosa arrivando a Parigi. Ma che cosa avrei dovuto fare? Aspettavo il momento propizio per andare da Marat. Andando a casa sua, al Palais Royal, avevo comprato un coltello: se lo avessi portato nel viaggio, potevano trovarmelo durante una perquisizione. Un coltello da tavola, a guaina, col manico nero, di osso, grandezza media, come quelli per tagliare l’arrosto. Quaranta soldi si prese, il negoziante. E non fece caso a me, pensava certo che fossi una massaia. Ogni tanto ne toccavo la lama; se ne stava in fondo alla borsa, acquattato, freddo e sottile; sulle dita mi lasciava un gelo che presto avrebbe invaso il corpo di Marat.
(Ha un brivido)
Mi sembrò naturale usarlo. “Perché avete colpito con un colpo perpendicolare e non orizzontale?” mi ha chiesto il giudice. Ho colpito come potevo... Certo volevo ucciderlo, non ho pensato ad altro. Ma rivederlo, quel coltello, mi ha fatto impressione. Doveva scomparire, una volta che aveva ucciso. Era diventato inutile e disgustoso. Come un membro virile dopo l’amore...
(Si sporge per guardare il pittore, che ha trasalito)
Oh, non stupitevi dì quanto ho detto. A casa nostra si parla con franchezza delle cose del sesso, io sono vergine, ma le mie sorelle tante volte mi hanno detto quanta tristezza le prendeva dopo essere state con i loro mariti... lo schifo per quello che fino a un attimo prima avevano desiderato le penetrasse... Così il mio coltello, quella lama ancora sporca dì sangue... Dicevano al processo che non era possibile che avessi progettato il delitto senza qualcuno alle spalle. Danton e Robespierre sarebbero stati felici se avessi accusato i girondini: in aula il giudice ne ha perfino chiamato qualcuno perché confessassero di essermi complici e mandanti. Ma è gente che non conosce il cuore umano! E’ più facile compiere un’impresa del genere da soli, spinti dall’odio piuttosto che eccitati da altri. Mi guardate senza capirmi. Forse vi distraggo, e voi dovete concentrarvi sui particolari del disegno, la parte più difficile... Oh!, fatemi bella e fiera e dolce: i miei capelli si sono appiattiti in queste notti passate in prigione, e il viso non ha goduto la carezza del sole: sarò pallida e grigia, mettetemi voi i vostri colori! Forse il mio profilo più che l’immagine piena del volto potrebbe richiamarmi a chi non mi ha conosciuto...
(Si volta di profilo)
Vi piace il mio profilo?
(Si volta un poco per vedere l’espressione del pittore dietro il cavalletto)
Oh! grazie! Mi volete con la bocca socchiusa? Oppure con le labbra serrate e il mento in alto, come un’eroina?
(Ride fanciullescamente)
Ridete anche voi! E’ così buffa questa situazione tragica! Il ritratto me lo farete come potrete... Come ho fatto io, colpendo col coltello, come ho potuto... C’era tanta gente al processo. Volevano vedermi, chissà, si immaginavano un’attrazione da fiera, un mostro assetato di sangue. Qualcuno però mi guardava con simpatia... forse avrebbe voluto compiere lui quel gesto. Era, quell’uccisione, un’azione inevitabile, credetemi! Quel giornale, più che la sua persona, costituiva il pericolo: le sue parole moltiplicavano in chi le leggeva la volontà di uccidere: l’“Amico del popolo” entrava nelle case, i suoi ragionamenti scavavano nelle coscienze esaltandole e incitandole al delitto. Appena il foglio arrivava, i giovani in paese se lo contendevano. Portava l’utopia della Rivoluzione, le sue parole esaltate eccitavano al sangue facendo leva sulle frustrazioni provinciali: dall’ammirazione che agli inizi avevo per Marat passai al disgusto ed al1’odio, e maturai la necessità di farlo tacere. C’erano stati i fatti di settembre. Il popolo senza guida aveva spazzato via capi indegni e semplici servi del potere. Erano stati tanti ad essere ammazzati senza processo, non c’erano mandati dì cattura firmati da qualche responsabile, né tribunali né sentenze. Tutto questo era avvenuto in un vuoto inevitabile della storia. Ma poi Marat, da tribuno, con chiare e nette parole, quelle crudeltà di un momento oscuro teorizzava a sistema! E le portava ad esempio come violenza da perseguire coerentemente! Ho visto ragazzi convincersi di quelle teorie e fratelli uccidere fratelli. Io non sono girondina. Non difendo gli interessi dei borghesi al diritto di proprietà. Era la giustificazione ad uccidere che mi ha spinto. L’ho ucciso io perché lui non uccidesse più. La parola di Marat aveva per i giovani il crisma della verità, per questo ho dovuto ucciderlo.
(Ha un sussulto)
Non disegnate più? Forse anche voi eravate attratto dalle teorie di Marat, anche voi leggevate i suoi articoli... Vedete, è diverso il delitto consumato da una turba di gente impazzita in un momento di disordine generale e il delitto premeditato e teorizzato come giusto... Perché agitate il pennello verso di me come un pugnale? Ah!, certo, anch’io ho preparato il mio delitto, e l’ho giustificato secondo una morale. Me ne assumo ogni responsabilità, infatti, e mi preparo a pagare. Morirò, ma altri dopo di me non dovranno morire più.
(Scuote la testa scompigliandosi i capelli)
Ogni gesto di quei momenti mi torna alla mente e mi attrae il desiderio di meditare, di riflettere. Eppure mi preme apparirvi bella perché di me rimanga un’immagine che tutta mi esprima nella grande gioia di vivere che mi appartiene. Mi è duro morire. Ho trascurato questo pensiero fino ad oggi. Mi premeva soltanto di arrivare a realizzare il progetto. Con quest’idea sono partita dal paese. Ho lasciato un biglietto a mio padre, dicendogli che andavo a Londra, abbiamo dei parenti laggiù e lui voleva che imparassi l’inglese. Poi ho preso la carrozza per Parigi, ce n’è una alla settimana. Il viaggio è stato lungo ma non me ne sono neppure accorta, pensavo a quello che andavo a fare, prevedevo ogni dettaglio. Parigi mi ha stupito per tutto quel luccichio dei tetti e delle strade, un mare d’oro nel sole di un’estate dolcissima.., e la gente, allegra nei riflessi di quell’oro a passeggiare per i viali... Chiedo della casa di Marat, tutti la conoscono e ci arrivo in un attimo. Busso alla porta. Aprono ma non mi fanno entrare. Si affaccia una donna, poi altre due, a difesa dell’entrata. Dicono che lui sta male, non riceve nessuno. Insisto, ho notizie sui disordini di Caen, è una situazione che gli sta a cuore. Ma le donne si rifiutano di portarmi da lui; e devo andarmene. E camminando senza meta, sento improvvisamente una gran pena per quell’essere di cui avevo letto soltanto gli scritti, che improvvisamente si faceva di carne e soffriva di un male segreto. Sono andata un po’ in giro, con quel pensiero. Ma poi mi sono accorta che la pietà del mio cuore non era altro che debolezza. Potevo compatire Marat come uomo, perché era malato; ma le sue parole erano piene di forza e inducevano a uccidere. Erano le sue parole che io volevo colpire, ed era inevitabile colpire lui che di quelle parole era l’autore. Così tornai alla casa di Marat. Erano le sette di sera, ma il sole sfiorava ancora il portone, e quando aprirono il raggio si insinuò all’interno e scoprì la fessura di una stanza, e intravvidi il volto di Marat. Mi guardava, i suoi occhi erano pieni di febbre. Chiamò una donna, le disse qualcosa e quella mi venne accanto e mi fece entrare. Marat stava immerso in una vasca piena d’acqua, tra lenzuola bagnate. Pareva più vecchio di quanto mi ero immaginata. Ma quelle tele lo avvolgevano come un bambino. I suoi occhi mi fissavano. Lo guardai franca, gli diedi notizia dei deputati e dell’esercito, e delle reazioni dei cittadini di Caen. Lui annotava ogni cosa su di un foglio; era umido d’acqua e l’inchiostro sulla carta si allargava in una macchia scura... Sorrise un attimo, come scusandosi. E io sentii che se avessi risposto a quel sorriso mi sarei perduta. Allora lo colpii. Dove mi riuscì, come mi riuscì; non lo guardai in faccia perché di fronte a me non vedevo più il despota teorizzatore di violenza, ma un pover’uomo che cercava solidarietà. Dopo, non ha più importanza. Danton e Robespierre saranno contenti che li abbia liberati dalla incomoda presenza di Marat.
(Respira profondamente, come liberata da un peso, con sollevo)
Ora mi sento meglio. Dovevo dirlo a qualcuno. Grazie per avermi ascoltato. Siete giovane. Più o meno come me. Avete un bel viso, peccato che io non possa farvi il ritratto Ma voi avete tempo. Mi sarebbe piaciuto conoscervi di più. Hauer. Vi ricorderò, quando non ci sarò più. Se mi sarà concesso.
(Dei colpi. Una porta che si apre e qualcuno che entra. Passi)
E’ ora, avete sentito?
(Si alza di scatto. Raggiunge il cavalletto. Vi si sporge)
Un bacio...
(Un momento di silenzio)
Forse avrei potuto amarvi.

BUIO. LA MUSICA DI UNA BANDA CHE SUONA LA MARSIGLIESE. IL SIBILO DELLA MANNAIA CHE CADE. L’URLO DELLA FOLLA. LUCE CONCENTRATA SULLA TESTA DI CARLOTTA, INANIMATA.
BUIO.

LUCE AD ILLUMINARE GRADUALMENTE LO SPAZIO BIANCO DELLA SCENA.
Dl LATO UNA CULLA RICOPERTA PARZIALMENTE DI PIZZI E DI TRINE, IN PARTE ANCORA SOLTANTO NELLA STRUTTURA NUDA DI VIMINI. UNA PORTA DI PRIGIONE CON UNA FINESTRINA A SPORTELLO.
OLIMPIA E’ SEDUTA DA UNA PARTE.

OLIMPIA Ho sete. Datemi un po’ d’acqua, per favore.
(Si alza. Prende dallo sportello un bicchiere d’acqua che le viene sporto. Torna a sedere.)
Grazie. Voi carcerieri siete più umani dei giudici. Il popolo è meglio. Anch’io sono figlia di povera gente. Dopo sono diventata una signora. Ma non perché abbia sposato un nobile o un borghese. Scrivo, quello che ho me lo sono conquistato da sola. Mi è costato arrivarci, e adesso mi costerà la vita. Ho voluto essere qualcosa e questo è il prezzo.
(Beve a lunghe sorsate.)
E’ già finita. Era buona. Fresca. Come la vita. Breve. E domani sarò come questo bicchiere, un guscio vuoto...
(Getta a terra il bicchiere che va in pezzi.)
e infranto dalla mannaia.
Mi taglieranno i capelli..
(Ride sciogliendo i lunghi capelli)
Così sarò veramente “più uomo che donna” come qualcuno ha detto di me. Non mi pento di niente. Non mi sono mai pentita di quello che ho fatto. Voi non potete capire che cosa voglia dire stare in campagna, avere a che fare soltanto con le bestie, non possedere i mezzi per esprimersi, non sapere neppure che esistono delle parole per dar forma alla confusione che ti preme dentro e che vorrebbe uscire... Dei signori che avevano un castello fuori dal paese in cambio di qualche carezza mi insegnavano a parlare. Mi chiamavano su da loro, delle volte. Ero molto giovane, avrei fatto qualsiasi cosa pur di andarmene da casa, non mi pesava assecondare quei signori. Poi ì miei mi costrinsero a sposare un oste. Era vecchio e malato, io avevo quindici anni e mi faceva schifo. Per fortuna morì dopo qualche mese. Mi lasciò un bambino e mi po’ di soldi. Allora me ne andai a Parigi. Oh!, dovevate vederli i nobili, come mi correvano dietro perché accettassi la loro compagnia! Per il bambino, c’era una brava donna che ci aveva seguito dal paese; stava bene, io gli procuravo tutto quello di cui aveva bisogno... (Contempla la culla. Vi si avvicina e la accarezza. Torna a sedere.)
Sono passati quasi trent’anni. Mio figlio adesso combatte per la Francia. Esperienze in tutti questi anni ne ho fatte di ogni genere. Non ho timore di raccontarvi tutto questo, ho sempre pagato di persona. Imparavo. Via via la mia mente si apriva come un pozzo d’acqua chiara; dentro ci vedevo riflesso un mondo diverso da quello che conoscevo. Ero bella e stavo ad ascoltare; non avevo bisogno di dire cose intelligenti, mi volevano per il mio aspetto, con l’aria di una fanciullina spensierata io ridevo e dentro di me imparavo. Quando la bellezza cominciò ad appannarsi, mi sentii pronta a cominciare una vita mia. Mi ero messa da parte un po’ di soldi, mio figlio era cresciuto... non aveva più bisogno di me. Mi piaceva il teatro. Ci ero andata spesso, accompagnata da qualche cavaliere. Decisi dì inventarmi una commedia. Ma scrivere, non sapevo ancora. Assunsi un segretario. Me lo tenevo accanto: appena mi venivano delle idee gliele dettavo; lui aveva una tavoletta con dei fogli e una penna, se li portava con sé sopra una specie dì panchetto, e scriveva scriveva ... Alla fine della giornata volevo che mi rileggesse ogni frase: allora correggevo, cambiavo... Dio come mi divertivo a scrivere! Ci mettevo dentro tutti i tipi simpatici e antipatici che incontravo, li facevo discutere, simpatizzare e litigare... Nessuno poteva accusarmi di quello che dicevano, erano personaggi di fantasia, ma in realtà parlavano con le mie idee; c’erano dei temi che mi stavano a cuore, ce li mettevo! Era molto più eccitante che discutere nei salotti: una donna, nessuno sta a sentirla, nella commedia non ero più io a volermi far ascoltare, ma i personaggi, e la gente doveva prestar attenzione! Dopo la prima, scrissi parecchie altre commedie. Una fece molto discutere: era sulla schiavitù dei negri: i nostri coloni commettevano ingiustizie atroci nei loro confronti, nessuno aveva avuto il coraggio di discuterne in Francia: io lo feci, non avevo piantagioni da difendere, il sacro principio dell’uguaglianza e della libertà era nel mio cuore assai prima che venisse proclamato dalla Rivoluzione. Ma quando cominciarono i moti, ne avvertii la violenza e volli ricondurre alla ragione i più agitati. Fraintesero il mio scopo, presero le mie parole per nostalgia del passato. Eppure era così chiaro! Gettai giù uno scritto con quello che pensavo e lo mandai ai membri della Convenzione: se uccidete il Re – dicevo - diventerà un martire, non è facendo cadere la testa di Luigi che eliminerete i mali della monarchia; un Re muore veramente se lo lasciate vivere dopo la sua caduta, se trascurate la sua esistenza umana e colpite il principio della monarchia... Ma sì, sembravano invasati, per loro la morte fisica del Re era venuta a rappresentare la risoluzione di ogni male della Repubblica... mentre tutto, tutto stava andando a rotoli: i funzionari erano corrotti, i deputati badavano alle loro clientele, perfino la gente di teatro si era lasciata trascinare in quell’andazzo e recitava con sciatteria, specie quelli della Comédie che erano pagati dallo stato e avevano quindi lo stipendio assicurato. Quei fannulloni dopo molti miei sforzi avevano acconsentito a mettermi in scena una commedia. Per mesi li avevo sorvegliati; avevo perfino affittato un appartamento sopra le stanze della Comédie per spiare che cosa stavano facendo: dormivano! per buona parte delle prove, nessuno imparava a memoria la parte... Usarono per il mio dramma costumi già adoperati in altre rappresentazioni, con il risultato che la gente non afferrò il significato patriottico della commedia, cominciò ad annoiarsi e se ne andò prima che lo spettacolo fosse terminato... Io allora saltai sul palcoscenico e mi misi a urlare che la commedia non era così, gli attori ne stavano facendo scempio, avevo scritto delle scene ben diverse ed ero pronta a recitarle io stessa perché il pubblico capisse... Ma era tardi; la gente esasperata e stanca se la sarebbe presa anche con Dio. Mi coprirono d’insulti. Ridevano. Tiravano contro di noi frutta marcia raccolta sotto gli alberi - lo spettacolo si teneva ai Champs Elysés – e io dovetti mettermi in salvo scappando assieme agli attori nelle serre del giardino. Questi poi si vendicarono contro di me per quanto avevo detto di loro... Ah!, non fu una bella esperienza!... Smisi di scrivere commedie e mi gettai in politica. Meglio affrontare direttamente le questioni che lasciarle alla mercé di guitti irresponsabili e cialtroni. Ormai ero conosciuta e potevo permettermi di rischiare, anche se come donna continuava ad essermi difficile farmi prendere in considerazione per le mie idee. E per prima cosa, appunto, mi occupo dei diritti di noi donne. Finalmente dico in. faccia agli uomini quanto sono ingiusti nei nostri confronti. Anche la Rivoluzione con la sua proclamazione dei diritti non si occupa che degli uomini. Così metto giù di mio pugno - non avevo più bisogno del segretario - una serie di articoli sui nostri diritti: le donne possono salire sul patibolo - scrivevo - perché allora non dovrebbero esprimere la loro opinione sulla scelta del governo, e votare? Poi tante, tante altre proposte... La scelta della paternità del proprio figlio, per esempio, anziché accettare supinamente quella conseguente al matrimonio. E il matrimonio stesso, diverso! Temporaneo, finora. quando va bene; poi liberi ognuno di andare da una parte o dall’altra... Libertà! Libertà vera per tutti. Ma proprio chi avrebbe dovuto appoggiare quelle rivendicazioni, si oppose, un denigrò, rise dì me! Forse vi stupirà, ma furono le mie compagne a comportarsi così. Sì, le donne preferirono mantenere i loro privilegi di puttane piuttosto che lottare guadagnandosi la dignità di persone; furono loro i nemici peggiori: a molte conveniva continuare a sfruttare i loro amanti, bearsi degli ozi pettegoli dei salotti, dimenticarsi nelle ghiotte incombenze della cucina: non pensare, non vivere: che squallore! Mi resi conto che è stata colpa anche delle donne se per secoli il mondo le ha tenute come schiave...
Mi infervoro ancora a queste cose eppure sto quasi per andarmene. Il mondo futuro non mi apparterrà. Non lascio che un figlio, ormai in grado di badare a se stesso... L’altro, che sento in me, non nascerà. Siete stato molto buono, carceriere.., a rendermi madre... Non avevo mai chiesto ad un uomo quello che molti uomini hanno chiesto a me, non sempre ottenendolo. Ho riposto le mie speranze in voi, confidando nella mia figura non ancora sfiorita, nel mio volto ancora fresco nonostante le molte primavere, con quella fiducia nella vita che non mi è mancata mai. Era l’unico modo per sfuggire alla ghigliottina: “Vi darò un cittadino o una cittadina, non potete condannarmi!...”. Non mi hanno creduto. Fouquier-Tinville, il grande accusatore, sostiene che in carcere una donna non può restare incinta... Fouquier è in malafede: tante donne hanno partorito dopo anni di prigione... Qualcuno ha dubitato che alla mia età avessi potuto rimanere incinta, ma io posso ancora dare la vita. E la sento in me la creatura nuova... (Si avvicina alla culla)
Questa culla ormai è inutile. Quando ho saputo che la condanna era definitiva, non ho più avuto il coraggio dì finirla. Regalala a una madre, carceriere. Ormai io devo prepararmi a un impegno che mi riguarda personalmente. Sarà contento Robespierre, questa volta non sfuggirò alla sua condanna. Ha avuto paura della prova. lo l’avevo sfidato: sì, sfidato a purificarsi per il bene della Francia; l’avrei fatto io stessa con lui: il sacrificio di una vita pura avrebbe disarmato il cielo. Gli scrissi proponendogli di precipitarci entrambi nella Senna: “Hai bisogno di un bagno per le macchie di cui ti sei coperto fin dai tempi del Terrore, la tua morte calmerà gli spiriti”. Sì sentì vilipeso, messo in ridicolo di fronte ai suoi seguaci. Cercò d’incriminarmi, ma non riusciva a trovare niente contro di me. Finché scovò gente disposta a testimoniare che nei miei scritti tramavo contro la Repubblica; e l’accusa partiva dal fatto che tempo prima avevo difeso il Re perché non ne volevo la morte, ma soltanto l’allontanamento dal trono. A nulla valsero le mie spiegazioni: i principi di libertà e di giustizia, chi li ha in odio non li vuole capire. Ancora poche ore e non ci sarò più. Una cosa ancora mi resta da fare... (Si avvicina alla porta per farsi udire più da vicino)
Vorrei che il mio testamento fosse pubblicato. Che la gente sapesse.
(Si toglie un anello. Lo sporge dallo sportello)
Questo anello è per voi. Nessuno ha avuto il coraggio di togliermelo, sarà la ricompensa per il servizio che mi farete portando il testamento al mio tipografo, penserà lui a stamparlo. Ora ve lo leggo. Sentirete che non vi è niente che possa danneggiarvi se vi trovassero in possesso di queste pagine.
(Prende dei fogli dalla culla. Più che leggerli, li recita.)

Lascio il mio cuore alla Francia.
La mia anima alle donne. La mia tecnica teatrale per gli scrittori della Comédie che ne traggano drammi ben scritti, e ai suoi attori le mie commedie perché le rappresentino. Lascio il mio disinteresse agli ambiziosi, la mia filosofia ai perseguitati. lascio il mio spirito ai fanatici, la mia religione agli atei. Lascio la mia gioia di vivere alle donne al tramonto... E ciò che resta di una fortuna accumulata onestamente, al mio amatissimo figlio.

(Sporge le pagine al carceriere. Trae un profondo sospiro)

Ecco, non mi pare di aver dimenticato niente. Mi sarebbe piaciuto scrivere la mia vita, ma non c’è più tempo, qualcuno forse la scriverà per me... Ho scritto tanto, pensieri, discorsi, drammi, suppliche, commedie e romanzi... Mi affido alle parole, forse varranno più di un ritratto.
Ora voglio dormire.

RECLINA IL CAPO ULLA SEDIA.
BUIO.
IL CANTO DELLA MARSIGLIESE.
RUMORE DI CARROZZA. NITRITI DI CAVALLI. UN BRUSCO ARRESTO.

VOCE DI OLIMPIA Grazie a Dio, il mio viso non mi ha giocato brutti scherzi, non sono troppo pallida! O destino fatale, tutto questo perché ho voluto essere qualcosa...

VOCE DI OLIMPIA (gridata) Ragazzi di Francia, ragazzi della mia patria, vendicherete la mia morte!

IL SIBILO DELLA MANNAIA.
LA TESTA DI OLIMPIA APPARE FORTEMENTE ILLUMINATA.
ACCANTO, UNA DOPO L’ALTRA, LE TESTE DI CARLOTTA E TERESA.

Fine

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