Maricla Boggio
IL RACCONTO DI MAGGIO


15 stazioni

LA SCENA

Una radura in mezzo a una fitta foresta, in Germania. E’ un pomeriggio di maggio.
Sullo sfondo della radura, un ponte-galleria.
Tra gli alberi che circondano la radura spicca un ciliegio carico di frutti.
L’azione si sviluppa nel corso di un pomeriggio della fine degli anni Ottanta.
L’accostamento di situazioni quotidiane e di situazioni immaginate consente di sfuggire alla monotonia di una rappresentazione realistica e di superare i dati biografici in una tensione verso la metafora.

Il dramma è dedicato a Primo Levi.

PERSONAGGI

L’UOMO, intellettuale, sopra i 60 anni
MARIA, studentessa, sui 20 anni

LE EX DEPORTATE
WANDA, politica
LUCIA, casalinga
AURORA, contadina ex partigiana, tutte intorno ai 60 anni

GLI EX DEPORTATI
STEFANO, uomo di cultura
CARLIN, ex operaio
GIMMY, ex partigiano
CICHIN, un solitario, tutti intorno ai 60 anni

I PARTECIPANTI AL VIAGGIO,
studenti intorno ai 20 anni
MARINA
BERTO
ORLANDO
GIULIO,
e JOLE, insegnante, sui 40 anni

I TEDESCHI
MARGARETHE, cantante, sui 35 anni
PETER, professore di contrabbasso, sui 40 anni
FRANZ, flautista, sui 30 anni

LE PRESENZE DEL SOGNO DI MARINA
Uomini e donne ex deportati
Il detenuto in divisa con gli stivali

LE APPARIZIONI
UN Generale SS
Un Soldato SS
I due deportati in divisa a righe
Il ragazzo russo
La ballerina dell’Opéra
L’operaio di Torino
Il tedesco politico
Lo spagnolo di ghiaccio
La donna dei vestitini

SCENA I

ENTRANO L’UOMO, VESTITO DI CHIARO,
CON UN RAMETTO DI BIANCOSPINO E UN TACCUINO AZZURRO,
E MARIA, CHE HA IN MANO LIBRI E CARTE

UOMO — Adesso tu vedi una foresta. Alberi robusti...
Fiori ed erba sul terreno... Tutto ispira serenità.

MARIA — Era questo il posto?

UOMO — Tutt’intorno, fin laggiù, c’erano le baracche...
Noi ci tornavamo a dormire, dopo il lavoro...
Hanno cancellato ogni traccia.

MARIA— E le torrette...Le guardie coi mitra...
I fili spinati....

UOMO — Scomparso quasi tutto.
Camere a gas... Forni... Soltanto qualcosa è rimasto perché non hanno avuto il tempo di farlo sparire...

MARIA — I lager sapevo che esistevano... I fatti, li avevo letti, studiati... ne abbiamo discusso tante volte tra noi...
Ma mi parevano un documento storico e basta.
L’incontro con voi, in questo viaggio, ha cambiato per me il senso, la sostanza stessa di questi avvenimenti.
Ho capito quanta sofferenza è costata questa esperienza, per chi l’ha vissuta.

UUMO — A quarant’anni dalla liberazione, mi rattrista che non siamo ancora riusciti a raccontare tutto quello che dovremmo far conoscere soprattutto ai ragazzi come te.

MARIA — Non immaginavo tante vite così dissimili, tra i deportati. Avevo sempre pensato che l’azione dei nazisti fosse motivata da una scelta politica.
Poi ho scoperto che la deportazione aveva segnato le persone più diverse. I partigiani, gli operai che si erano opposti al fascismo, ma anche donne di casa, studenti, artigiani nella loro bottega, ragazzi all’uscita dal cinema... medici... perfino bambini... preti: gente che viveva rispettando gli altri e voleva un po' di felicità....

UOMO — Per questo non era soltanto la morte che noi temevamo nel lager.
Era il pensiero che nessuno avrebbe mai saputo.
Se moriremo qui in silenzio, come vogliono i nostri nemici, ci ripetevamo, se non ritorneremo a casa, il mondo non saprà mai di che cosa l’uomo è stato capace; potrà di nuovo essere colpito da questa barbarie, qualunque ne sia l’origine.

MARIA — E’ stato questo pensiero a darvi forza.

UOMO — Era la coscienza di una responsabilità storica ben definita. Affiorava nei rari momenti di tregua, quando sforzandoti arrivavi di nuovo a pensare.

MARIA — Mio padre mi ha detto che i suoi sono morti qui.
Ma non se la sentiva di raccontarmi di più.
Quello che sono riuscita a capire dei campi, è stato attraverso di voi... Forse il padre di mio padre era un po’ come lei...

UOMO — ( sorride)
Avrei voluto una nipote come te, Maria.
Con tuo nonno forse ci siamo incontrati... di tanti non sapevo neanche il nome...

MARIA — C’era chi si salvava e chi moriva. Perché?

UOMO — Il caso pareva scegliere tra le nostre vite.

MARIA — Vuol dire la fortuna?

UOMO — L’azione personale contava ben poco.

MARIA — Ma un uomo intelligente, uno robusto... per loro era più facile sopravvivere...

UOMO — Tu ragioni per logica. Ma lì era diverso.
L’intellettuale non sapeva rubare le patate: quello svelto magari le rubava anche per te, tu ti saresti fatto prendere!
A quello forte davano lavori più pesanti, ma il cibo era scarso e uguale per tutti... Ogni regola nel campo risultava rovesciata.

MARIA — Oh!, io non avrei avuto la forza di resistere!

UOMO — Chi credeva in qualche cosa aveva più probabilità di sopravvivere. Un ideale, non importa che fosse morale, religioso, politico... E chi sperava di riabbracciare le persone care...

MARIA — Lei è riuscito a tornare.

UOMO — Certe volte mi pesa. Quando rientravamo, alla sera, non eravamo tutti quelli del mattino.
E chi si coricava, non sapeva se si sarebbe alzato il giorno dopo. Io scrivevo quello che succedeva su dei pezzetti di carta, li trovavo nei rifiuti in fabbrica dove lavoravo... Non sempre avevo una matita, immaginavo le parole seguendo l’impulso della mano, quel gesto mi aiutava a conservare la capacità di ricordare.
E c’era questo desiderio, di far conoscere a mia madre... ai miei amici... questa esperienza disumana che stavo vivendo.
Dopo, ho cercato di raccontare.

MARIA — Ho letto i tuoi libri.
( ha un sussulto)
Oh!, le ho dato del tu. Forse perché la ascoltavo come si ascolta la coscienza...

UOMO — Allora, dammi del tu. E perché tu non perda questa coscienza, che è il segreto della vita stessa, ti racconterò come un giorno, che avevo perso ogni speranza, ho ripreso fiducia.
Ogni mattina dovevamo alzarci al segnale del Kapo, "Wastwà" diceva la voce. Si ripetevano i gesti che davano inizio ad un’altra giornata di dolore e di umiliazione.
La corsa ai gabinetti... Lavarsi...Vestirsi in fretta...
Sul piazzale per l‘appello... Botte, urla, le crudeltà che tu conosci. Poi uscivamo varcando il muro, sotto i mitra delle guardie. Appena fuori cominciava il bosco. Su di un lato, tra gli alberi alti, spuntava un cespuglio di biancospino. Quando lo notai, la prima volta, era stecchito dall’inverno, ma giorno dopo giorno l’alberello cambiava; si faceva più flessibile nei rami, le punte acuminate si arrotondavano di gemme. Un mattino erano spuntati i fiori!

MARIA — Hai ritrovato il biancospino!

UOMO — Forse è il cespuglio di allora, le piante rinascono, non muoiono mai.
(porge il rametto a Maria)
Tienilo tu.

MARIA PRENDE IL RAMETTO E LO METTE IN MEZZO ALLE PAGINE DI UN LIBRO.

MARIA — Lo terrò per ricordo. Oh, vorrei ancora andare in giro per il bosco. Da quando siamo arrivati con il pullman, tutti quanti si sono dispersi a passeggiare, la foresta è così grande...
UOMO — Abbiamo tempo, prima dell’ora della cena...

I DUE SI AVVIANO FUORI DALLA RADURA.

MARIA — Non ti avevo mai visto, durante il viaggio. Poi ci diamo incontrati nel bosco...

SCENA II

MUSICA, VIA VIA PIU’ ALTA. DOLCE, ASSORTA, QUASI UNA RIEVOCAZIONE D’INFANZIA.
ENTRANO NELLA RADURA MARINA, BERTO CON LA CHITARRA, ORLANDO CON LA BATTERIA, GIULIO CON IL BASSO.
MARTINA ACCOMPAGNA CON MODULAZIONI VOCALI LA MUSICA CHE I SUOI COMPAGNI STANNO SUONANDO.

BERTO — Mi vengono dei suoni così, per contrasto a quelle cerimonie... Discorsi... corone...medaglie...non la finivano più.

MARINA — Sono le celebrazioni ufficiali. Se durava ancora un po’, non ce la facevo più a stare in piedi.

ORLANDO — Quelle manifestazioni lì, non puoi dire “no”. Se non le accetti ti prendono per una bestia.

GIULIO — Come portare i fiori al cimitero. E loro, delle volte, sentono il bisogno di vedersi riconosciuto quello che hanno patito.

ORLANDO FA USCIRE DEI SUONI DALLA SUA BATTERIA PORTATILE.

ORLANDO — Mentre facevamo il giro dei forni, io ne vedevo le bocche spalancate, e mi immaginavo quelli che ci erano stati messi dentro, alcuni ancora vivi... Accanto a me, i superstiti... E loro ci raccontavano...

MARINA — Questo contatto con loro, per me è stata la cosa più importante. A scuola, ricevevi soltanto qualche nozione in più, un po’ come imparare le storie dei romani, o il Risorgimento...cose lontane, che non ci riguardano.

GIULIO — Anch’io avevo cominciato il viaggio come se andassimo a visitare un normale cimitero. Invece, quando mi sono trovato davanti la distesa del campo, e poi le baracche rimaste, mi pareva di vedere ancora le persone...

MARINA — Davanti ai forni, sono rimasta sconvolta al pensiero che si potesse uccidere in quel modo...

BERTO — Si dice che l’uomo in fondo è buono.
Ma se si trova in certe condizioni, può diventare un complice, anche se non è il principale responsabile: con il silenzio, o per debolezza o viltà ... o per paura.

MARINA — Nonostante quello che hanno patito, non sono mai spinti dall’odio.

GIULIO — Se ti lasci prendere dall’odio, la cosa finisce lì: stai male tu e basta. Loro invece voglion che noi capiamo perché certa gente è arrivata a fare quello che ha fatto.

ORLANDO AUMENTA IL SUONO DELLA PERCUSSIONE CHE ACCOMPAGNERA’ IL SUO RACCONTO.

ORLANDO — Mentre stavamo alle camere a gas, io mi ero fermato: c’erano migliaia di fotografie, una accanto all’altra. Guardandole, mi sembrava di riportare per un attimo alla vita uomini di cui si ora perso anche il nome.
Tutt’a un tratto la porta si è chiusa dietro di me.
Non riuscivo a riaprirla. I tubi delle docce sporgevano da ogni parte, sapevo che da quei tubi era uscito il gas. Andavo su e giù mentre cominciava a prendermi una paura tremenda: se nessuno si accorgeva che non ero più col gruppo, potevo morire lì dentro. Cominciavo a sentirmi uno di loro, quando scoprivano l’inganno... Poi la porta si è riaperta di colpo: è entrato Carlin, quello che faceva l’operaio; mi ha riportato fuori, gli altri non si erano accorti di niente, e abbiamo continuato il giro.

BERTO — Tu hai provato quello che hai provato perché sapevi che cosa significava andare a finire là dentro.

MARINA — Se sai, ti immedesimi. Tu hai rivissuto l’esperienza dei deportati.

GIULIO — Io non pensavo che avremmo stabilito un rapporto addirittura di amicizia, con loro. Invece, quando si rientra in albergo dopo queste visite, si sta insieme, si parla di tante altre cose... Ieri sera erano perfino contenti di sentirci suonare.

I RAGAZZI RIPRENDONO A SUONARE LA MUSICA DOLCE e RIEVOCATIVA DI QUANDO SONO ENTRATI. NELLA RADURA.

 

SCENA III

ENTTRANO WANDA, LUCIA, AURORA E JOLE.

WANDA — Oh! Stendiamo qui la tovaglia e fermiamoci.

AURORA TIRA FUORI DA UNA BORSA UNA TOVAGLIA E LA STENDE SULL’ERBA.

LUCIA — Gli studenti di Jole!...
Abbiamo portato una bella merenda, ci fate compagnia?

I RAGAZZI SORRIDONO, IMPACCIATI.

JOLE — Ragazzi, sedetevi con noi e mangiate!

BERTO — Forse preferivate stare per conto vostro...

MARINA — Da giorni, in tutto questo viaggio, vi stiamo sempre intorno.

WANDA APRE GLI INVOLTI DELLA MERENDA E LI DISPONE SULLA TOVAGLIA.

WANDA — Questo viaggio, perché l’abbiamo fatto?
Per stare insieme a voi e raccontarvi tutto quello che sappiamo.

LUCIA — Tra noi, siamo state già abbastanza.
Eravamo compagne di blocco, Wanda, Aurora ed io.

AURORA — E’ con voi giovani, adesso, che vogliamo parlare. Appena tornate, se raccontavamo, la gente ci prendeva per matte: non ci credevano!

WANDA — Ti trovavi a dover cercare le compagne per poter dire “Ti ricordi?...Ti ricordi?...”.

AURORA — Gli altri si spaventavano. E anche in casa... la mamma era vecchia e si metteva a piangere... il fratello aveva la sposa che aspettava... Invece di farci sentire più vicini, la deportazione ci ha divisi. Non che avessimo smesso di volerci bene.
Anzi, i fratelli mi erano riconoscenti. Ma tu avevi passato le tue pene, dovevi tenertele e basta.
Ero quasi una bambina, i fascisti a me non facevano caso: andavo su e giù a pascolare le vacche e sciau. A forza di sentire i discorsi dei partigiani, mi ero convinta anch’io.
Ma le donne non facevano politica, parlo di noi della campagna. La Wanda invece sapeva cosa dire e cosa non dire, come un uomo!

JOLE — (ai ragazzi)
Dovete considerare la mentalità di quei tempi.

AURORA — Era proprio un altro, il modo di pensare! E allora si poteva sfruttarlo, servirsene!
Un giorno c’è stato un rastrellamento: noi eravamo scesi al paese, e ci siamo trovati circondati. C’erano i miei fratelli, c’era il comandante, poi dei ragazzi che erano andati anche loro partigiani. Io studiavo un modo per salvarli. Dico: “Voi cercate di scappare che io mi faccio prendere, i tedeschi che avete come ostaggi li scambiate poi con me”. Mio fratello non voleva. Ma io insistevo: “Come donna mi posso salvare, invece voi vi ammazzano”. Il comandante ci ha pensato su, poi dice: “Aurora ha ragione”. Io ho preso due caricatori del mitra e la pistola: dovevo portarmi qualche cosa per fargli credere la storia, e sono andata giù, incontro a quelli. Ho fatto un po’ la stupida, ho detto che mi ero persa, che non avevo più trovato il mitra... Loro ci hanno creduto, e intanto con tutte le mie chiacchiere ho fatto passare un po’ di tempo. Quando hanno poi visto che i ragazzi stavano passando la collina, si sono messi a sparare, ma intanto erano già in salvo e non li hanno presi. Mentre io, purtroppo, ho cominciato la trafila ché mi ha portato poi qui.

JOLE — I tedeschi te l’hanno fatte pagare, li avevi presi in giro.

MARINA — Aurora si era comportata da partigiana.

WANDA — E l’hanno spedita in Lager. Ma Lucia no, era solo una donna di casa.

BERTO — Perché i nazisti si accanivano anche con gente che non faceva politica?

JOLE — E’ una risposta dire: “Perché era ebrea?”. Può essere un motivo valido, questo? Noi non lo accettiamo.

LUCIA — Era a questa follia che non volevamo arrenderci. Fino ad allora avevo pensato soltanto a mio marito e al mio bambino, vedevo il mondo attraverso questo affetto, a amavo gli altri, perché facevano parte dell’armonia in cui vivevo con i miei cari.

MARIA — Quando ti sei accorta che il mondo non era così?

LUCIA — Per ogni ebreo denunciato, i tedeschi davano tremila lire. Una sera sono venuti a casa. Dalle scale ho visto chi li aveva accompagnati, era una donna che mi aiutava nei lavori, così aveva saputo che ero ebrea. L’ho guardata, lei ha voltato la testa. Mio marito sperava di farmi rilasciare, io ho preso il bambino, ci hanno portato tutti all’albergo Nazionale. Lì ho rivisto quella donna, era andata a ritirare i suoi soldi. Quando sono tornata dal Lager, è venuta a chiedermi perdono. Ma che cosa c’era da perdonare? Ormai la famiglia era distrutta...
(piange)

MARINA — Se deve costarle altre lacrime, non dica più niente...

LUCIA — No invece! E’ un modo per sentire vivi quelli che non ci sono più...

WANDA — Prima di venir qui, vi avevano portati alle Nuove...

LUCIA — Andare in prigione, con la mia mentalità, era una vergogna. Ci hanno divisi: mio marito nel braccio degli uomini, io col bambino, che piangeva, piangeva... C’era una suora, era la direttrice delle carceri, veniva a prendere mio figlio, con la scusa di fargli respirare un po’ d’aria lo portava al padre: lui mi mandava dei biglietti ... “Fatti coraggio, passerà!”, io gli rispendevo...
MARINA — E … il bambino?

LUCIA — E’ stata un fortuna conoscere quella suora.
Un giorno è venuta a dirmi che una signora voleva tenerlo. Con mio marito siamo stati d’accordo a darglielo, sapevamo già che saremmo partiti ... Ma nostro figlio, dovevamo risparmiargli quel rischio.

MARINA — Così è restato in Italia.

LUCIA — Sì, l’ho poi trovato al mio ritorno. E’ stato il pensiero del bambino a sostenerci, la speranza di rivederlo ci ha impedito di compiere un gesto che forse avremmo deciso di fare.
(ha difficoltà a proseguire)
Per me sono cose difficili da dire, perché mio marito non c’è più, e non so quanto ha patito prima di morire... E ho un rimorso; se lo lasciavo fare come voleva lui, questo rimorso non lo avevo.

AURORA — Ma non vedevi più il bambino. Tuo marito è contento che voi due vi siete ritrovati.

LUCIA — Mio marito è contento...Tu riesci sempre a dire le cose giuste.
Abbiamo fatto quel viaggio che non finiva mai...
Senza mangiare. Niente acqua. Stipati nei vagoni...
Mancava l’aria, non potevamo stenderci, dormire, niente.
Fino all’ultimo mi illudevo, “Forse ci porteranno a lavorare...”. Siamo scesi, ci hanno trascinato in uno stanzone ... Fuori vedevamo delle ombre, scheletri che vagavano ... senza capelli ... gli occhi persi ... barcollanti ... Cominciavamo a capire. C’era una famiglia vicino a noi, lui era farmacista, la moglie una bella signora, e il figlio studente e due bambine vivaci...
Il padre teneva del veleno nascosto in un anello: ci hanno detto che, se volevamo, ne avrebbero dato anche un po’ a noi. Mio marito aveva già capito a che cosa andavamo incontro... Ripeteva: “Che cosa possiamo fare in queste condizioni? Non riusciremo a sopravvivere.” E io dicevo: “Abbiamo lasciato Mauro piccolo, dobbiamo far di tutto per resistere e tornare. Lì fuori c’è della gente, si vede che hanno patito ma sono vivi: possiamo farcela anche noi”.

I RAGAZZI SUONANO SOMMESSAMENTE LA LORO MUSICA.

AURORA — A volte sognavo di stare sdraiata sotto una pianta, al fresco, con una bella pagnotta tra le mani.
Quel pane che facciamo noi, nel forno a legna, con la pietra che ci passavi la mano e ti scaldavi...

WANDA — Il pane in Lager era nero, si sbriciolava come segatura, non bastava mai per torglierti la fame...

AURORA — Io ne avevo conservato un pezzo. A casa ho provato a darlo alle galline: l’hanno preso nel becco, l’hanno buttato via: neanche le galline lo mangiavano!

LUCIA — Mandavamo giù qualsiasi cosa, pur di tirare avanti. E a volte stavamo a fantasticare ...Vi ricordate le ricette?

WANDA — Ah!, voi due eravate più brave di me! Era una festa sentirvi descrivere le dosi, gli ingredienti.
Veniva in bocca perfino il sapore...

AURORA — Io non conoscevo le lingua, ma con le ricette riuscivo a farmi capire. C’erano delle francesi, delle russe, tante erano polacche, e anche le tedesche, le “politiche”! Era di sera che si poteva stare un momento insieme, prima di dormire. Io arrivavo dalla manifattura,
(indica Wanda)
lei dalla fabbrica....
(indica Lucia)
lei dalla sartoria...
Ci riunivamo tutte quante, e ognuna descriveva una sua specialità.

LUCIA — Io me le scrivevo, quelle ricette.
Avevo trovato dei foglietti gettati via, al laboratorio, e li avevo cuciti assieme, ne avevo fatto un libretto. Le francesi erano bravissime, annunciavano i loro “hors d’œuvres” e i loro ‘gateaux” agitando le mani, con un lampo di golosità negli occhi ... In quei momenti dimenticavi la disperazione...

WANDA — Io stavo a sentirvi. Quando avevate finito di descrivere la preparazione, gridavo “Champagne!” e si rideva tutte quante...

AURORA — “Champagne!”...
( le donne ridono)

LUCIA — Per un attimo era come se fossimo a casa.

AURORA — Ci siamo volute bene.

WANDA — Fuse non avremmo mai capito quanto importava volersi bene, se non era per quel vedersi portar via ogni giorno qualche compagna.

LUCIA — Una sera, proprio per il gioco delle ricette ci eravamo addormentate quasi serene. Ma nella notte la mia compagna di branda si era sentita male, aveva la febbre alta. Non c’era niente per curarla, l’ho presa tra le braccia, era quasi una bambina, così fragile... Nel delirio mi dice: “Domani sarò morta, prenditi le mie calze, ti serviranno”. E io protesto: “Ninin, non dire sciocchezze, starai di nuovo bene”. Lei si addormenta, e dormo anch’io. Al mattino era morta. Ho preso le sue calze. Le ho staccato il numero dalla divisa, me lo sono messo in tasca. L’abbiamo portata fuori, sulla neve, non potevamo fare altro. Al ritorno quel numero l’ho portato alla famiglia.

WANDA — Di queste cose se ne vedevano ogni giorno.
I momenti di serenità erano rari, ce li ricordiamo perché a quelle piccole cose ci aggrappavamo per sentirci libere nello spirito...
(tira fuori dei panini)
Se avessimo avuto roba come questa, non avremmo creduto ai nostri occhi.
Ragazzi, prendete! Che gioia, quando si ha fame, avere da mangiare!

I RAGAZZI PRENDONO I PANINI. LE DONNE FANNO ALTRETTANTO.

BERTO — Io quando mangio finché ho voglia, provo una specie di imbarazzo, se penso alla fame che avete patito.

AURORA — Per fortuna è passata. Solo una cosa non riesco a sopportare: quando portano tanta roba e non ce la fai mangiar tutto: che gettino via gli avanzi!

WANDA — Anch’io mi sento male. Appena ritornata mi riempivo le tasche di pane piuttosto che vederlo buttare. Poi uno si riabitua alla normalità.
E oggi normalità è lo spreco.

LUCIA — Nel Lager conservavo dei pezzetti di pane, li mettevo da parte, un pezzo per uno scambio con una sigaretta, un altro per un lavoretto. Li avevo nascosti sotto il pagliericcio. Aspettavo Natale per farmene una scorpacciata, una volta tanto volevo sentirmi sazia. Una sera che vado a controllare il mio tesoro, non lo trovo più. Se l’era divorato una vicina che aveva scoperto il mio secreto.
Non ci ho provato più, sarebbe finita di nuovo così.

AURORA — Io sono arrivata a mangiare le pelli delle patate rubate nella spazzatura! Una volta mi hanno beccato. E la guardiana mi ha dato venti bastonate. “Piuttosto mi mordo e sangue — mi sono detta — ma non gli do la soddisfazione di gridare”. Alla fine sono rimasta a terra, svenuta dal dolore. E’ venuta una francese, mi ha fatto una carezza e ha detto che ero stata “très jolie”. Ma se la vedevano, erano botte anche per lei.

WANDA — Sempre botte. Anche senza motivo.

JOLE RIEMPIE DI VINO DEI BICCHIERI E LI DISTRIBUISCE.

JOLE — Vorrei fare un brindisi: che tutto questo non succeda mai più!

MARINA — Oh sì!

BERTO — Però non facciamoci illusioni. Qualcuno ancora oggi ragiona in termini di razzismo. Magari maschera il pregiudizio sotto una battuta ...
Sui muri, a caratteri cubitali, ho letto “Forza Etna!”: erano i giorni in cui interi paesi in Sicilia rischiavano di essere travolti dalla lava ... io sono nato al nord, ma i miei son venuti da laggiù...

GIULIO — “Cannibali, rabbini, beduini, fuori dall’Italia!”, c’erano dei manifesti, con questa scritta.

ORLANDO— E allo stadio? “Meglio negro che juventino”... e poi ... “Giudei” e “Marocchini”, per dare addosso agli avversari ...

JOLE — Queste manifestazioni di intolleranza sembrano estranee all’ideologia che ha portato ai Lager, ma il principio della discriminazione è lo stesso.

BERTO — Sì, l’annientamento di chi viene dichiarato diverso non è che lo sviluppo coerente di un inizio dall’apparenza innocua.

MARINA — Brindiamo allora a questi amici che ci stanno aiutando a capire!

TUTTI — Brindiamo!
Beviamo!

TUTTI BEVONO. POI LE DONNE COMINCIANO A RACCOGLIERE I RESTI DELLA MERENDA.

LUCIA — Riportiamo queste borse sul pullman ...

JOLE — Vi aiuto, se volete...
(prende dei fagotti)

WANDA — Potresti essere mia figlia... Da giovane ero un po’ come te, seria … agguerrita ... con tutte le mie idee in testa …

BERTO SI AVVICINA ALLE DONNE.

BERTO — Posso darvi una mano...
(prende degli involti)

WANDA — Grazie caro.
Jole potrebbe essere mia figlia, tu hai l’età per essermi nipote...

BERTO — (ride) Uno nonna come lei mi piacerebbe!..

ESCONO.

MARINA — (a Giulio e a Orlando)
Mi sta venendo sonno. Prima il viaggio … poi le cerimonie ... adesso il brindisi…
(si sdraia sull’erba)
Dormo un po’.

ORLANDO — Anche a me è venuto sonno.
(si stende poco più in là)
Questo posto è così bello...Eppure qui sono successe storie terribili, che nessuno verrà mai a conoscere ...

GIULIO — (si sdraia anche lui)
A noi non capiterà niente di simile...

ORLANDO — Se tu fossi costretto a scegliere, che cosa accetteresti di essere: vittima o carnefice?

GIULIO — L’impulso è subito quello di dire “vittima”. Ma è facile essere generosi a parole, quando non si deve pagare. Carnefice, allora? Forse più comodo. Ma dopo, il rimorso sarebbe insopportabile.
(medita)
Sì, anche ragionando, avrei scelto di essere vittima.

ORLANDO — Dormiamo. Stasera in albergo ci godremo una bella cena tutti insieme.

GIULIO — A dopo, allora.

ORLANDO — A dopo.

I RAGAZZI DORMONO.
ENTRANO L’UOMO E MARIA.

MARIA — Oh! I miei compagni!... Dormono.

UOMO — Sogneranno, e resteranno turbati per quello che vedranno in sogno. Ma conoscere il male è più sopportabile che patirlo.

MARIA — Dici cose profonde...Io non saprei parlare come te.

UOMO — Tu sei giovane. Gli anni e il dolore portano questo privilegio. Ma non cercare messaggi nelle mie parole. Non sono un profeta né un veggente. Soltanto un uomo che ha vissuto.

ESCONO

SCENA IV

I RAGAZZI DORMONO. MARINA SI RIGIRA INQUIETA. NEL DORMIVEGLIA
BALZA A SEDERE, SCRUTANDO INTORNO.
SUONI DAPPRIMA CONFUSI SI PRECISANO IN UNA MARCIA NAZISTA.
UN BAGLIORE ACCECANTE INVADE LA CAVITA’ DEL PONTE.
CONTROLUCE APPARE UNA GIGANTESCA FIGURA DI SS.
MARINA ASSISTE, INCAPACE DI MUOVERSI.
LA MARCIA SI CONCLUDE CON UN URLO.

URLO — Jewohl!!!

SS — (a voce altissima)
In qualunque modo questa guerra finisca, l’avremo vinta noi.
Nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza. E se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, non certezze: perché noi distruggeremo le prove!
E se mai qualche prova rimanesse e qualcuno di voi dovesse sopravvivere, la gente dirà che i fatti che raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti. Crederà a noi, che negheremo tutto, non a voi!
La storia dei lager saremo noi a scriverla!

BUIO. SCOPPI DI BOMBARDAMENTO. FUMO DENSO. EMERGONO DALLA CAVITÀ’ TRE UOMINI.

OPERAIO — No! Non avete vinto voi!
Qualcuno doveva tornare perché il mondo sapesse!

CONTADINO — Non voglio raccontare quello che è stato il Lager! E’ terribile raccontare!

INTELLETTUALE EBREO — Dimenticavo di giorno, con la luce del sole. Come veniva il buio, non potevo dormire...

CONTADINO — Noi vogliamo che gli altri sappiano, ma dentro di noi cerchiamo di dimenticare...

OPERAIO — Già nel primo periodo del fascismo, noi ci riunivamo in fabbrica: lì si discuteva e si organizzava ...

INTELLETTUALE EBREO — Sono stato espulso da scuola perché di razza ebraica.
Il preside mi voleva tenere, ma i professori fascisti si sono opposti, e ho dovuto andar via...

I TRE TORNANO NEL FONDO E SCOMPAIONO.
VENGONO AVANTI DUE UOMINI E UNA DONNA.

UFFICIALE ITALIANO — Andato sotto a vent’anni e arrivati a casa a ventisette: il furto della tua giovinezza!

SOLDATO ITALIANO — L’otto settembre ero in ospedale in Jugoslavia e la radio dà l’annuncio che la guerra è finita.
Sono arrivati i partigiani jugoslavi e abbiamo deciso, siamo andati con loro.

DONNA EBREA — Una sera alla fine del ‘43 viene il messo comunale dove eravamo sfollati e dice: “Adesso non vi ho visti. Ma torno domattina. Non fatevi trovare”.
Siamo scappati e per mesi abbiamo vissuto nascosti. Poi ci hanno denunciato. Qualcuno che sapeva che eravamo ebrei.

I TRE TORNANO VERSO IL FONDO.
AVANZANO DUE UOMINI E UNA DONNA.

PROFESSORE — Ci portano via... Chiusi dentro i vagoni a Porta Nuova... Gettiamo dei biglietti dove troviamo uno spiraglio...Chi legge questo scritto, lo dica ai miei...

CAPPELLANO — Eravamo un convoglio di seicentocinquanta persone: il più vecchio, settantacinque anni, il più giovane, un bambino di sei mesi. Di tutta questa gente, siamo tornati quindici uomini e otto donne...

CUOCA — Come siamo scese dal vagone, le SS hanno chiesto a mia madre quanti anni aveva. Lei ha detto cinquanta e ci hanno divise. Poi ho saputo che l’hanno mandata subito ai forni. Gli hanno detto: “Nessuno che sia vecchio entra nel Lager. Tua madre non c’è più, è passata ormai per il camino ...”. Ho pianto per due giorni, poi non ho pianto più, da allora non son più riuscita a piangere.

PROFESSORE — Ci hanno fatti entrare nelle docce... C’erano scheletri nudi, morti per terra...Picchiavano con i bastoni... L’acqua bruciava, portava via la pelle... poi di colpo era ghiaccio. Tutta la notte nudi, con i piedi nell’acqua, aspettando il mattino...

I TRE SCOMPAIONO NEL FONDO.
AVANZANO ALTRI TRE.

BOSCAIOLO — Ero appena arrivato, mangiavamo la zuppa. Uno mi fa: “Senti che puzza: è il crematorio, stanno bruciando i morti...”. Io non ho più mangiato, e lui si è preso la gamella. Ma i giorni dopo, potevano dire tutto quel che volevano, continuavo a mangiare!

TRAMVIERE — Chi entrava in infermeria, non usciva vivo.
I malati dormivano nudi, senza coperte, con le finestre aperte. Morivano di freddo o di dissenteria, due o tre giorni e li liquidavano.

MENTRE SI SVOLGERA’ IL RACCONTO DEL TERZO - IL FALEGNAME -, AVANZA CON UNA CAMMINATA ININTERROTTA UN DETENUTO IN DIVISA A RIGHE, DI CUI RIMARRA’ CELATO IL VOLTO, MISERO FANTOCCIO CON AI PIEDI DEI VISTOSI STIVALI LUCIDI E NERI: SI AGGIRA A SCATTI GIRANDO INTORNO AI RAGAZZI PER LA DURATA DELLA TESTIMONIANZA, POI SCOMPARE.

FALEGAME — C’era una baracca a Orianenburg. Quando uno veniva punito, invece di impiccarlo lo mettevano in quella baracca. Lì provavano le scarpe. Erano gambaletti o stivali robusti, dovevano avere una certa durata ... Allora facevano camminare i condannati: non dovevano fermarsi mai... Quelle scarpe dovevano sempre camminare. Quando uno cedeva, lo ammazzavano, ne prendevano un altro...

I TRE SI RITIRANO SUL FONDO.
NE AVANZANO ALTRI TRE.

PANETTIERE — A scavare in galleria ne morivano quattrocento per notte.
Finito il lavoro si caricavano i carretti e si portavano nei forni crematori...

IMBIANCHINO — Verso la fine, avevano fatto fare delle buche lunghissime: ci buttavano i morti, e calce sopra, calce perché coi forni non ce la facevano più a farli sparire…

OSTE — A volte mi sono chiesto perché non uccidevano subito, invece di far soffrire così, senza ragione.
A febbraio erano arrivati cento prigionieri: li hanno rasati e contati. Una doccia bollente, e fuori al gelo. Poi li hanno fatti rientrare: altra doccia bollente, e ancora al gelo, così per tutta la nottata. Al mattino, quelli rimasti viv, li hanno uccisi con spranghe e con bastoni, calci e colpi di pietre.

I TRE TORNANO VERSO IL FONDO.
AVANZANO ALTRI TRE.

RESTAURATORE — M’hanno chiesto il mestiere: “Tornitore”, ho detto. E a quelli che mi stavano vicino ho sussurrato: “Dite anche voi così, vi aiuto io”. Perché se sapevi un mestiere, potevi sperare di vivere.

FERROVIERE — Per andare alla fabbrica, fuori dal Lager, passavamo in mezzo a un paese. Ma la gente, mai nemmeno uno sguardo. Una sguardo di compassione no, non c’è mai stato.

MEDICO — A Gusen c’era un francese che raccontava store d’amore: ascoltarle per noi significava vivere. Era il Natale del ‘44 e lui ci chiede se avevamo scritto la nostra letterina ... Un ragazzo gli dice: “Io ho scritto alla mamma...”. Era una lettera immaginaria, non si poteva mica scrivere... Diceva che si trovava in campo di concentramento, che aveva freddo, abituato a casa con tre maglie e adesso era lì con quasi niente ... E il francese gli ha detto: “Non va bene così; devi scrivere: ‘Cara mamma, qui mi trovo bene, non patisco il freddo, ho tante maglie, mi trattano con tutte le attenzioni...’ ”. Sono queste le cose che ci hanno fatto sopravvivere.

I TRE UOMINI SCOMPAIONO NEL FONDO.
AVANZANO TRE DONNE.

GIORNALAIA — Ci rapavano a zero. Magre, senza più figura di donna. Poi appena arrivi, pensi: “Come faccio, quando avrò le mestruazioni?”. Perché almeno per un mese ti venivano e non sapevi come ripararti. Le compagne già nel campo ti dicevano: ”Quest’altro mese non le avrai più...”. Era vero, si perdevano. E ti sentivi violentata come donna.

PARTIGIANA — A Rawensbruck le italiane erano mescolate a gente di ogni nazionalità. Stavo giornate intere senza dire una parola. Poi sono finita all’ospedale, nel letto accanto a me c’era una donna di Torino: parlavamo piemontese!, ci sembrava di rivivere...

INFERMIERA — Le ossa si erano decalcificate. Pensavo un bel momento di non alzarmi più. Addormentarsi e non svegliarsi. Ricominciare il calvario, a volte non me la sentivo.

PARTIGIANA L’unico desiderio, che scendesse la notte. Finito l’appello, entrar dentro, una liberazione. Arrivava il giorno, arrivava la morte.

GIORNALAIA — Si rompevano le macchine, si tirava via una vite, magari nascondevi un pezzo... Così la produzione si fermava!

LE TRE DONNE SCOMPAIONO NEL FONDO
AVANZANO TRE UOMINI.

CAMIONISTA — Mi avessero detto: “ Fra. dieci minuti sei morto”, io rispondevo: “Ma passino in fretta questi dieci minuti!”. Avevamo un solo pensiero, arrivare a casa, vedere i nostri cari, poi anche se devi morire, pazienza!...

MECCANICO — Moriva uno, gli cascava la testa nei piatto, tu gli tiravi su la testa e mangiavi quello che rimaneva...

PRETE — Mi chiedevano l’estrema unzione. Era proibito, sorvegliavano. Dicevo: “Ha la febbre?”, per poterlo toccare sulla fronte. E con quello che trovavo, sulla fronte senza farmene accorgere, gli tracciavo il segno della croce.

MECCANICO — E si moriva sempre soli!... Nessuno ti diceva niente. Si tirava diritto, eravamo diventati tutti estranei. E morale non ce n’era più. Ecco perché tanti non se la sentono di raccontare: era il campo a ridurci così.

I TRE SCOMPAIONO SUL FONDO.
TORNA IL DETENUTO CON GLI STIVALI. COMPIE ALCUNI GIRI
INTORNO AI RAGAZZI CON LA SUA CAMMINATA A SCATTI, SCOMPARE.
AVANZANO DUE UOMINI: SONO GLI ULTIMI TESTIMONI. DIETRO DI LORO TORNANO QUANTI PIU’ E’ POSSIBILE DI QUELLI CHE HANNO PARLATO PRIMA.

MACCHINISTA — Una sera volevo andarmi a buttare sui reticolati. Guardavo il cielo e pensavo: “Quando faceva bello, al mio paese, c’era la luna. Chissà se mia madre sta guardando il cielo e anche lei vede la luna...”. Volevo buttarmi, ma un amico ha capito e mi ha fermato. “Devi tornare a casa — ha detto —, lascia che facciano, tanto alla fine avranno la peggio loro”.

AVVOCATO — I nazisti cominciavano a perdere. Per non farci trovare dai russi che avanzavano, da Auschwitz ci hanno fatto fare la marcia di evacuazione. Alla fine siamo arrivati a un altro campo. Io non ne potevo più. Se uno cadeva, i tedeschi gli sparavano. Allora ho fatto finta di ridere, di giocare: cantavo, perché non capissero che ero stremato. Sono arrivato al cancello in ginocchio, mi sono tirato su piano piano... mi sono salvato.

MENTRE IL GRUPPO RETROCEDE NELLA CAVITA’ FINO A SCOMPARIRVI, IL DETENUTO CON GLI STIVALI RITORNA CON LA SUA CAMMINATA A BALZI, SI AVVICINA A MARINA, SI PROTENDE SU DI LEI.

DETENUTO — Chi è stato torturato rimane torturato... Chi ha subìto il tormento non potrà più vivere felice... L’annullamento non si estingue mai…

IL DETENUTO CORRE VIA CON IL SUO PASSO OSSESSIVO. MARINA LO SEGUE FINO A SCOMPARIRE DALLA RADURA.

MARINA — Povero essere martoriato! Fermati... Lascia che ti aiuti!....

SCENA V

ENTRANO BERTO E STEFANO DISCUTENDO, SEGUITI DA CARLIN E GIMMY.
GIULIO E ORLANDO SI SVEGLIANO. CARLIN E GINMY FANNO LORO SEGNO Di NON INTERVENIRE NEL DISCORSO FRA I DUE.

STEFANO — Hm!...Caro Berto, siamo arrivati a conquistare il diritto di voto per tutti, siamo d’accordo. Ma da qui a dire che tutti devono avere lo stesso peso nelle sorti del paese, bè, ce ne corre!

BERTO — (accalorandosi)
Bisogna vedere di che peso vuoi parlare: se si tratta di prestigio, di apparenza, di rappresentanza, puoi anche aver ragione. Ma la gente non si calcola così.

STEFANO — Certo, certo ... Il lavoro ha importanza ... Ognuno è una ruota dell’ingranaggio ... Ma non potrai negarmi certe carenze che riguardano le regioni del Sud.

BERTO — (reagisce con energia, sentendosi coinvolto. Giulio e Orlando lo fiancheggiano, pronti a intervenire)
E lo sfruttamento del Nord nei confronti dei meridionali, uno sfruttamento andato avanti per secoli, questo non lo consideri?

STEFANO — Ma sì...ma sì ... Però non possiamo dar sempre le colpe ai padri. E la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra sono tutte piaghe del Sud...

BERTO — (sempre più contrariato per la foga dell’altro)
Non puoi ragionare in questi termini schematici e razzisti...
(si ferma di colpo)
Oh!, scusami Stefano...Ma da come stai parlando, sembra che anche tu abbia dei pregiudizi: magari senza accorgertene, ma...

STEFANO RIDE. CARLIN E GIJMY RIDONO ASSIEME A LUI.

CARLIN — (agli altri due)
C’è cascato.

GIMMY — Per forza! Con quella vecchia volpe lì!

BERTO — (che non capisce)
Quale volpe?

STEFANO — Io! Io sarei la volpe, secondo loro!

CARLIN — Faceva così anche nel capo!
Oh già! Perché prima li provava, i giovani!

BERTO — (che non è ancora riuscito e capire)
Provava i giovani?
GIMMY — Per forza! Li metteva alla prova. Perché non era mica tanto semplice, in Lager, stabilire dei contatti... Non ci si poteva fidare di tutti...

STEFANO — (a Berto)
Ti ho provocato, hai capito? Ho cercato di farti reagire dicendo il contrario di quello che penso...

GIMMY — E tu gli sei andato dietro. Razzista lui!
(ride)

CARLIN — (indicando Giulio e Orlando)
E loro due, pronti a difendere l’amico!

GIULIO — Ah, io ci ho creduto.

ORLANDO — Anch’io. Sembrava davvero convinto.

BERTO — Ma tu, facevi in questo modo, nel Lager?

STEFANO — Ho cominciato a far così quando la nostra organizzazione segreta era già stata messa in piedi. Ci aveva insegnato Lui ... Il nostro maestro ... di idee politiche, di vita...

BERTO GUARDA INTERROGATIVAMENTE GIMMY E CARLIN. STEFANO SEMBRA PERDUTO NEI RICORDI.

CARLIN — (sottovoce)
Era uno dei capi della Resistenza. Per Stefano come se fosse ancora vivo...

GIMMY — Anche a me si era avvicinato. La prima volta che me lo sono visto davanti, mi ha offerto un pezzo di pane!

STEFANO RITORNA ALLA REALTA’.

STEFANO — Sì, in quella disperazione, chi ti dava un pezzo di pane, era già un amico. Di momenti per parlare ce n’erano pochi; quando tornavamo dal lavoro, finito l’appello, mangiata la brodaglia, prima di dormire avevamo un’ora di libertà. Si poteva girare nel campo, era l’unico momento di possibili contatti, di diffusione di notizie, di riferimento politico...

GIMMY — Era lì, che Lui interveniva: cercava di non farci arrivare all’abbruttimento.

CARLIN — Quando hai fame non riesci più a pensare a niente. Ma Lui ci faceva di nuovo tirar su la testa.

STEFANO — Veniva a prenderci e diceva : “Fai delle domande!”: voleva che tirassimo fuori un interesse per qualcosa...

GIMMY — E delle volte non riuscivamo a imbastire una domanda!

CARLIN — Ti veniva solo da chiedergli se aveva portato qualche cosa da mangiare. Io dicevo a Gimmy: “Adesso tocca a te”, e lui: “No, tocca a te!” ... e lui: “No, tocca a te!” … Poi facevi uno sforzo e chiedevi. Lui cercava di darci qualche notizia, qualche speranza, per tirarci fuori dall’apatia.

BERTO — Avevate organizzato una resistenza?! A me pare una cosa impossibile!

STEFANO — Facevano di tutto per ammazzarti, non solo fisicamente ma anche nello spirito. Certi si lasciavano andare... Ma chi aveva in mente un fine ben preciso, era convinto che non avrebbero prevalso all’infinito e si accaniva ancor di più a reagire. Sentivamo il dovere di trascinare gli altri.

BERTO — Come facevate a sapere quello che stava succedendo fuori dal Lager?

CARLIN — Ci eravamo costruita una radio a galena, pezzo per pezzo, all’officina dove andavamo a lavorare. Era dentro a una bottiglia, sentivi avvicinandola all’orecchio. Prendeva solo sei sette chilometri, però bastava.

GIMMY — L’attentato a Hitler, l’abbiamo saputo prima noi che le SS!

STEFANO — E ascoltavamo le notizie dei russi e degli americani. Dal tono di quei messaggi, ci rendevamo conto che i nazisti ormai vivevano nel terrore della disfatta.

BERTO — E voi vi preparavate. C’erano degli altri?

STEFANO — Francesi...Belgi...Spagnoli... un po’ di tutti i paesi. Ognuno aveva un gruppo che poi si collegava agli altri.

GIULIO — Ma come riuscivate a mantenere il gruppo?

STEFANO — Dovevamo ricostruirlo in continuazione. Tanti morivano... a durare eravamo in pochi...

CARLIN — Ma qualcuno doveva sopravvivere...

GIMMY — Noi avevamo un passato di esperienze dure.
Io in montagna partigiano, Carlin in fabbrica. Stefano era di quelli che scrivono, e poi c’era Lui, il capo, che era già nel partito ...

STEFANO — Ci siamo trovati a dover decidere chi doveva sopravvivere. Quel poco che potevamo influire sulla sorte, l’abbiamo fatto. E’ stato difficile dire: “Quello vive e quello... quello farà come potrà”.

BERTO — Qualche potere lo avevate, nel Lager .

STEFANO — C’era chi lavorava negli uffici: vecchi compagni della guerra di Spagna finiti lì da anni, quando la situazione non era ancora rovente, come poi nel periodo dei nostri arrivi. Altri lavoravano in officina e avevano contatti con qualche civile, pochi per la verità ma qualcuno c’era che stabiliva un rapporto umano: magari gli regalavi un giocattolo per i bambini ricavato da un pezzo di legno, o un bocchino da un po’ di galalite levigata al tornio...

CARLIN — Se uno era di quelli da aiutare, veniva dato per morto; al blocco invece figurava in carica normale, e in questo modo si salvava.

BERTO — Non avevate paura che qualcuno facesse la spia?

GIMMY — Nel campo non tutti erano antifascisti, per questo bisognava stare attenti. C’erano anche dei delinquenti, gente mandata in Lager per reati comuni.

CARLIN — A decidere chi doveva essere salvato era l’organizzazione, che cercava di agire con cautela: metteva alla prova ogni individuo, provocava perfino, per capire con certezza come la pensava.

ORLANDO — Eh sì, ce lo avete dimostrato!

STEFANO — Però si poteva salvarne uno su cento. Il problema principale era di assicurare a quest’uomo quella fetta di pane in più che gli permetteva un minimo di sopravvivenza in più. Noi lavoravamo a fare le pulizie al blocco, una volta al giorno si andava dal capoblocco a prendere tre o quattro chili di pane. Lo. tagliavamo a pezzi, ce lo mettevamo addosso e si andava a cercare chi si doveva. Sapevamo il nome di questi sei sette, dovevamo riuscire ad avvicinarli e a dargli il pane, restando a controllare che lo mangiassero tutto loro.

CARLIN — La cosa presentava dei grossi pericoli perché quando uno tirava fuori un pezzo di pare, gli saltavano addosso tutti.

GIMMY — Io non mi sono mai perso d’animo. Avevo anch’io dei momenti di sconforto, ma dargliela vinta ai tedeschi, no!
A volte mi vedevo mia madre davanti, era la fame a farmi quegli scherzi, ma intanto a me pareva proprio di averla vicino. Le parlavo come quando andavamo a pascolare le vacche, prima che scoppiasse la guerra. Magari veniva giù uno di quei temporali che tutto dove trovano, rovinano. Ci riparavamo sotto una roccia e stavamo a guardare i campi, la vigna con quel poco d’uva che curavamo tutto l’anno. Mia mamma, mai che si prendesse paura. Diceva: “ Quando tempesta, non prende tutto. Qualche grappolo, vicino a un palo, sotto una foglia un po’ più spessa, rimane ancora, magari sciupato, ma rimane”. Così io pensavo di noi nel Lager, e mi facevo coraggio.

SCENA VI

UNA BRUSCA FRENATA DI AUTOMOBILE. SBATTERE DI PORTIERA.
ENTRA UN UOMO IN DIVISA DA DEPORTATO.

CARLIN — (con un grido)
Ma tu non sei Cichin?

L’UOMO CON LA DIVISA SI FERMA DI COLPO, ACCORGENDOSI DELLA PRESENZA DEGLI ALTRI.

CICHIN — Io?!... Ma tu non sei Carlin?

CARLIN — Certo che sono Carlin. Ma come mai tu sei qui, e vestito in quel modo? Ci hai fatto prendere un colpo.

GIMMY — Come tornare a quei tempi...
Ma cosa ti viene in mente, di andare in giro così?

CARLIN — E poi, avevi detto che non venivi in questo viaggio, che non ci tornavi neanche morto, a pestare questa terra!

ENTRANO LE DONNE, RICHIAMATE DAL RUMORE DELL’AUTOMOBILE.

WANDA — Ma è il Cichin!

LUCIA — Sì, è proprio lui!

AURORA — Il Cichin! Se lo incontravo nel bosco, mi prendevo paura.

CICHIN — Oh insomma, mi volete fare il processo?

CARLIN — Avrai le tue ragioni, ma ci vuoi spiegare perché vieni qui, da solo, vestito da deportato?

ENTRA CORRENDO MARTA, ANCORA IN PREDA ALL’INCUBO DEL DETENUTO CON GLI STIVALI VISTO NEL SOGNO. VA A FINIRE NELLE BRACCIA DI BERTO.

MARINA — Oh! Berto!...Quel povero essere martoriato... Gli stivali … la divisa a righe...
(vede Cichin)
Allora non era un sogno!

BERTO — Calmati, hai sognato...

WANDA — Non aver paura: è Cichin con la divisa.

JOLE — Io non ho capito chi sia, però ci spiegherà perché gira vestito così.

CICHIN — Eh! Non avevo mica intenzione di spaventare nessuno!
(guarda i ragazzi)
A voi lo spiego, il perché. E’ giusto, potreste anche prendermi per matto.
(ai compagni)
Ma chi pensava di trovarvi qua?

GIMMY — Quel cinque maggio che ha dato il via alla liberazione, credi di essere soltanto tu a ricordartene?
Noi vogliamo celebrarlo tutti insieme, mentre tu te ne vieni qui da solo: che senso ha!?

STEFANO — E lasciate che parli lui...

CICHIN — Non mi vanno tutti quei discorsi, di gente che non è neppur dei nostri...Tutti morti, gli amici ...
(si tocca la fronte, come per scacciare pensieri dolorosi)
Almeno fosse servito a qualcosa...Non vi accorgete che a nessuno importa niente di quello che abbiamo patito? Alzano le spalle ... Si è già parlato abbastanza ...

STEFANO — (indica i ragazzi)
Loro no. Hanno cominciato a capire e vogliono saperne di più. Non dobbiamo rifiutarci.

CICHIN — Tante volte sono venuto qui da solo. Prendevo la macchina e via tutto d’un fiato. E intanto ripensavo a delle cose, per conto mio. Mi risentivo nelle orecchie la voce di un compagno che mi aveva detto “ciau” prima di morire...e tanti altri ricordi...che non voglio dire. Arrivavo fin qui, indovinavo dove prima c’era il blocco... dove c’era torretta ... Mi mettevo la divisa ... perché era come un legame con quelli che ci sono morti dentro. Qui nessuno mi doveva vedere, ero io coi miei morti e nessun altro.

STEFANO — Ti sei fermato con la macchina proprio in questo posto. Eppure è una radura come tante...

CICHIN — Anche questa è una storia!...Io qui ho un mio segno....

BERTO — Eppure il posto assomiglia a tanti altri.

MARINA — Oggi abbiamo rischiato di non trovarlo più, ci siamo persi tutti, almeno una volta, andando in giro.

CICHIN — Bisogna tornare indietro, al giorno della liberazione. Sono arrivati gli americani, con un carro armato. Si sono piazzati in mezzo al campo, e noi tutti intorno a guardarli, grassi e rosei com’erano. Loro non si aspettavano di trovarci in quello stato, non avevano da darci da mangiare, ci hanno buttato un po’ di gomma da masticare e sono ripartiti, dicendo che sarebbero tornati. Però intanto eravamo liberi,.niente più SS, potevamo andare e venire dal campo. Io sono arrivato fino alla campagna... Si vedevano delle fattorie ... dei frutteti ... In mezzo a un prato c’era una pianta giovane, di ciliegio, piena di frutti non ancora maturi. Non so cosa mi è preso, avevo un pugnale, l’ho rovinata tutta, ho schiacciato i frutti, strappato le foglie ... L’odio che avevo accumulato contro i tedeschi si scaricava in quel modo fuori di me: ho conficcato il pugnale nel legno fino a staccare la corteccia... Dentro era tenero, cedeva come carne ... Due contadini mi guardavano dalla cascina, non mi hanno detto niente.. Poi, il viaggio di ritorno: treno, motocarro, a piedi, perfino i cavalli... Tornare, io non me la sentivo, così mi sono fermato alla frontiera, non sapevo cosa avrei trovato a casa... Alla fine mi son fatto coraggio, è inutile raccontare il dopo. Ma quella pianta mi rimaneva nel cuore come una ferita.
Non riuscivo a partire con gli altri. Non mi andava di ragionare su quello che era successo. Io non ce la faccio a farne un “motivo di riflessione storica”, come dite voialtri. Ma se continuavo a star chiuso, da solo, scoppiavo. E un giorno sono partito. Questo mi è sembrato il posto giusto per fermarmi. Allora c’era ancora qualche baracca, i fili spirati li avevano già tolti. Dalla macchina ho scaricato un ciliegio delle mie parti, una piantina che avevo innestate io. Mi sono fatto coraggio e ho piantato il ciliegio.
(guarda verso la macchia dì alberi sul fondo)
Eccolo là. E’ cresciuto...

MARINA — (vede l’albero, gli va vicino)
E’ proprio un ciliegio!

BERTO — E’ carico di frutti!
Cichin, possiamo assaggiarli?

CICHIN — Mi prendi in giro? Le ciliege sono di tutti. Me ho paura che non siano ancora mature.

MARINA E BERTO RACCOLGONO UN PO’ DI CILIEGE, LE DISTRIBUISCONO.

MARINA — Non sono tanto acerbe. Ne volete?

STEFANO — (a Cichin)
Non avevi mai parlato tanto. Neppure alle riunioni.

CARLIN — Altro che timido, il Cichin!

GIMMY — Quando si mette, non la finisce più!

WANDA — Una volta me lo ricordo perfino allegro. Eravamo tutti allegri, quella volta! Dio, che voglia di divertirci appena tornati!

AURORA — E’ stato quando ci siamo riuniti, per il primo anniversario.

WANDA — Avevamo fatto una bella riunione. E dopo i discorsi, c’era venuto un desiderio, non so… dì sentirci ancora giovani, spensierati come prima del Lager.

CARLIN — Siamo andati al Valentino.
Nessuno aveva voglia di ritornare a casa.

AURORA — C’erano i tigli fioriti...L’aria aveva odore di miele...

CARLIN — E siamo andati fin da Castellino. Quante volte, alla sera, durante la deportazione, pensavamo al momento in cui saremmo ritornati a casa. Eravamo convinti che sarebbe successo in primavera. E sottovoce, per darci coraggio, cantavamo: “Ritorneremo a maggio...”.

AURORA, WANDA E LUCIA CANTANO SOTTOVOCE.

— “Ritorneremo a maggio...” .

SI AGGIUINGE GIMMY.

— “Con tante rose...”.

CARLIN — E la liberazione è stata proprio a maggio.

WANDA — “Ci sposeremo a maggio” era una canzone che andava di moda ai nostri tempi. Una canzone romantica, né bella né brutta. Ma per noi aveva preso quel significato.

CARLIN — Così andiamo da Castellino. Eravamo macilenti, vestiti male. Poi era svanita l’euforia che ci aveva tenuto su nei primi tempi, si erano accumulate le preoccupazioni...

GIMMY— Ma quel giorno eravamo allegri. Si capisce, quando ci trovavamo tra di noi ... Ma in mezzo a quella gente giovane, elegante, ci siamo sentiti fuori posto. Ci eravamo messi da parte...

CARLIN — ... e stavamo per andare via.

CICHIN — Però a quel punto, “a ventava balè”, bisognava ballare, e da Castellino era proprio l’espressione che ci voleva! Mi volto a Carlin e gli faccio: E se gli chiedessimo “Ci sposeremo a maggio’? Credi che ce la suonerebbero?”.

CARLIN — Io gli dico: “Chiediamo alla Wanda, che sa sempre cosa fare”.

WANDA — E io dico subito: “Ma che bell’idea! Sì sì, chiediamogliela, così sentiamo la nostra canzone!”.

CARLIN — Allora io mi faccio coraggio e vado dall’orchestra, che aveva finito un ballabile e stava per farne un altro. Gli dico la richiesta, loro mi guardano, e lì si vede che avevano capito chi eravamo, e mi dicono che la suonano. Io faccio appena in tempo a tornare dagli altri, che l’orchestra attacca. La gente aveva notato il nostro gruppo: non comincia mica a ballare quando quelli attaccano con la musica! Vengono tutti verso di noi, e si mettono a battere le mani ... ma con un calore...con una foga che…
(si interrompe, preso dalla commozione)

GIMMY — Anche noi ci siamo messi ad applaudire, a un certo punto.
La gente continuava a battere le mani, e noi con loro.

CARLIN — Poi hanno cominciato a cantare. Cantavano quella canzone che ci aveva tenuto compagnia per tanti mesi... che per noi voleva dire “ si torna a casa!”.

WANDA — E poi, ci siamo messi tutti a ballare. Anche con gli altri ... Eravamo felici.

MARINA ACCENNA LE PAROLE DELLA CANZONE. I RAGAZZI SUONANO.
TUTTI CANTANO AGGIUNGENDOSI AI RAGAZZI.
POI SI METTONO A BALLARE, COPPIE, SCAMBIANDOSI, OPPURE TENENDOSI PER MANO. E’ UNA FESTA.
TUTTI POI GRADUALMENTE SI ALLONTANANO DANZANDO, DISPERDENDOSI NEL BOSCO.

SCENA VII

LA RADURA VUOTA. IN LONTANANZA, GLI ECHI DELLA CANZONE. ENTRANO GIMMY E WANDA.

WANDA — Quella sera ballavamo anche noi due...

GIMMY — Eh!, Wanda...Ma tu stavi in politica, io ero soltanto un ex partigiano...

WANDA — Ti metti a fare il romantico adesso?
Sono i casi della vita. E poi, al tuo paese, soddisfazioni ne hai avute!

GIMMY — Al principio, non lo nego, si davano tutti da fare per me. I miei poi, non parliamone.

WANDA — Tuo padre era un vecchio socialista...Veniva sempre ai comizi col garofano al gilè...

GIMMY — Lavorava in campagna dal mattino alla sera, anche da vecchio. Quando sono tornato, che era di notte, lui si è alzato, e chiamava dalla finestra tutti quanti, “E’ tornato Gimmy! E’ tornato!”... Sotto casa c’era tutto il paese...il sacrestano ha suonato le campane...E mi chiedevano se si stava tanto male dove mi avevano tenuto prigioniero...

WANDA — In città nessuno si accorge di te. Tra noialtri sì, ma la gente, come se tu non ci fossi.

GIMMY — Non ti illudere che il paese sia tanto diverso! Dopo un po’ che facevano queste domande e io cercavo di spiegare, cominciano a dire: “Oh, ma che cosa credi? Che noi qui siamo stati bene?”. E raccontano delle retate dei tedeschi, e che avevano incendiato il paese... e di quelli che eran morti nel mitragliamento dei treni... e che lo zucchero e il caffè si trovavano soltanto a borsanera... e i tagliandi della tessera e i bombardamenti degli americani... Alla fine si commiseravano tra loro, e a me nessuno dava più ascolto.

WANDA — E’ umano tutto questo. Non te la prendere.

GIMMY — Me la sono presa allora. Poi mi è passata.
Ma come è andata a te? A parte la politica, voglio dire coi tuoi.

WANDA — Mio padre ha capito quello che avevo passato. Era uno che leggeva, aveva previsto come andava a finire. Quando sono tornata, mi ha abbracciato. Poi sulla terrazza mi ha fatto vedere i grappoli del pergolato: “Vedi? mi fa —, ti ho conservato l’uva luglienca...”. E a quel punto ho sentito che ero di nuovo a casa.

GIMMY — E hai fatto la strada che ti eri scelta.

WANDA — Mah!, è la strada che sono riuscita a prendere. Potevo anche diventare una buona maestra... una madre di famiglia...o magari tutte e due!...

GIMMY — A me l’avevano chiesto, se volevo entrare in politica. Ma per quel poco che avevo capito, mi ero reso conto che politica c’era una grande confusione, una corsa al profitto, un’indifferenza verso gli altri che creava ingiustizie anziché eliminarle...

WANDA TACE, ANCHE SE PARREBBE SUL PUNTO DI REPLICARE.

GIMMY — Lo so, Wanda, che la pensi in maniera diversa. Ma tu possiedi una tua forza; e io, le persone oneste come te, continuo a rispettarle.

SI AVVIANO FUORI DALLA RADURA FINO AD USCIRNE.

WANDA — Vorrei venire su in montagna da te...una volta. Parlare un po’ coi giovani. Qualcuno deve continuare quello che abbiamo fatto noi. Non siamo eterni...

SCENA VIII

LONTANO, NEL BOSCO, LA CANZONE.
ENTRANO JOLE E LUCIA. SIEDONO ACCANTO AD UN ALBERO.

JOLE — Non ballavo dai tempi dell’università. E in questo viaggio, non mi aspettavo di passare dei momenti così allegri.

LUCIA — I giovani trascinano. Hanno la capacità di farti sentire di nuovo nel pieno della vita, quando ti ascoltano. Ti danno la consapevolezza che quello che ti sforzi di ricordare ha un valore profondo: non si tratta soltanto di un episodio della tua esistenza, ma è una parte della storia del mondo...

JOLE — Non so se noi eravamo così maturi a quell’età.

LUCIA — Sono diversi. Come se dopo la tragedia che è avvenuta, loro volessero capire tutto, per non ricaderci.

JOLE — Io non ho dovuto patire le vostre esperienze. E non posso più avere le speranze dei ragazzi.

LUCIA — Sei una figlia del sessantotto: così, mi pare, vi definite...

JOLE — Come mi sembra lontano quel tempo!... Delusioni ne abbiamo avute, ma certo meno brucianti delle vostre. Però è stato difficile accettare le ristrettezze del quotidiano, in confronto a quei sogni di libertà assoluta...

LUCIA — I giovani di questa generazione invece sono riflessivi, concreti.

JOLE — Da come parli, sembra che tu li conosca bene.

LUCIA TIRA FUORI DALLA BORSETTA DELLE FOTOGRAFIE.

LUCIA — E’ mio nipote... Un ragazzo tanto affettuoso! E’ a lui che ho raccontato di me, più che a suo padre.

JOLE — Il bambino che avevi lasciato alla suora …

LUCIA — L’ho ritrovato quando sono tornata.
(sospira)
Ma, era giusto, si era abituato all’altra madre...

JOLE — Non l’hai più potuto avere con te?

LUCIA — Lo vedevo quando volevo. Ma aveva bisogno di sicurezze, di continuità...Ho dovuto aspettare che fosse grande per fargli capire com’era andata. Dopo veniva sempre a trovarmi. E con suo figlio, non ci sono state difficoltà.

SI RIALZANO, AVVIANDOSI.

LUCIA — Mio nipote è la vita di domani. Ed è anche la mia vita.

ESCONO.

SCENA IX

ENTRANO L’UOMO E MARIA.

UOMO — La parola possiede una forza incomparabile. Quando credi di non farcela più, l’impulso a esprimere qualcosa fuori di te, per spezzare l’isolamento, comunicare con gli altri e riaccendere la volontà per resistere, può costituire una forza senza limiti. Ma, al di là della parola, posso dirti che ho trovato una forza ancora più straordinaria. C’è stato un periodo, nel lager, in cui ero costretto a lavori che mi distruggevano fisicamente e mi impedivano di pensare. Dovevamo trasportare delle pietre, caricarle dalla cava ai vagoni. Qualcuno più disgraziato di noi aveva dovuto trascinare le pietre dal fondo della cava… Noi dovevamo caricarcele sulle spalle e gettarle nei vagoni.

MARIA — Eravate in tanti a fare quel lavoro?

UOMO — Ogni giorno ce n’erano dei nuovi. Lavoravamo a coppie, si caricavano i massi e si portavano all’altezza del treno. Una volta ero insieme a un belga, un ragazzo consumato da quella fatica sproporzionata a lui: ad ogni carico era sempre più debole, si capiva che non avrebbe resistito. Era un poeta...Non parlava l’italiano, me io capivo il francese e lui, qualche volta, accennava dei versi... Mentre li diceva, si animava tutto... riviveva le emozioni che glieli avevano dettati... Ma nessuna poesia poteva salvare un uomo da quella fatica mortale. Vedevo che si stava spegnendo. Mi faceva rabbia quella morte, bastava un momento di riposo...un sorso d’acqua...Era una morte stupida.

MARIA — Sei riuscito a salvarlo?

UOMO — Dal fondo della memoria mi affioravano a tratti parole senza nesso; con sforzo tentavo di collegarle. Mi davano la sensazione di una sofferenza comune... Ma da dove venivano? Mi balzavano nella mente confuse... Inseguivo delle assonanze.. Mi concentrai, mi passò dentro un bagliore, era Shakespeare! “Essere o non essere”... In quel riconoscere le sofferenze dell’uomo, in quel desiderare la morte, si identificava la situazione in cui stavo vivendo. Cercavo di districare quel viluppo di frammenti per svolgerli in frasi e offrirle a sollievo al mio compagno. Ma intanto lui pativa il dolore nella sua carne. Io tentavo di ricordare quel monologo. “Morire...dormire... prender armi contro un mare di difficoltà e por fine ad esse...”. E poi di nuovo “Morire... dormire... e con un sonno dire che noi poniamo fine alle sofferenze dell’animo... e alle mille offese naturali che sono retaggio della carne...”. Dalle parole che avevo amato cercavo di far emergere una ragione di vita, ma non ci riuscivo.

MARIA — Erano parole che spingevano alla morte...

UOMO — Erano un invito a non soffrire più. Ma altre frasi più avanti, che via via mi riaffioravano alla mente, contrastavano con quel desiderio di farla finita: “Chi vorrebbe portare pesi tremendi... gemendo e sudando sotto una vita opprimente... se non che il timore di qualche cosa dopo la morte... il paese non ancora scoperto... dal cui confine nessun viaggiatore ritorna ... confonde la volontà e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo... che non volare verso altri che non conosciamo?...”. Non potevo dire al mio compagno, sanguinante e sfinito, che era meglio sopportare quei mali piuttosto che affrontarne altri, in un al di là sconosciuto... Che cosa poteva esserci di più spaventoso, di quanto stavamo vivendo?! Quale dio avrebbe saputo infliggerci una pena più tremenda di quella che già pativamo da parte di uomini?!

MARIA — E allora, che cosa hai fatto per il tuo compagno?

UOMO — Quel poco di Shakespeare che mi ronzava nella mente stava scomparendo nel nulla, e io mi arrendevo a una realtà più forte della poesia. Allora, mentre i guardiani non vedevano, mi sono tolto la camicia e l’ho infilata al mio compagno, così le pietre non toccavano più le ferite. Sul suo volto è apparso per un attimo qualcosa come un sorriso. Ci siamo guardati: non avevamo smarrito del tutto la nostra umanità....

I DUE ESCONO.

 

SCENA X

ENTRANO STEFANO E CARLIN, CON GIULIO E ORLANDO.

CARLIN — Appena tornato, mi era venuta voglia di vivere! Ero felice! Felice di essere a casa. Qualunque cosa mi dicevano, io ridevo… Mi importava soltanto di camminare, di correre, di vedere la gente andare in bicicletta... Poi c’è stata una botta che mi ha fatto ritornare indietro, mi ha fatto riflettere a quanto eravamo fragili, con la vita appesi a un filo... Quando è morto il Viggiu.

STEFANO — Un grande amico, un uomo che nel Lager aveva fatto coraggio a tutti. Aveva tenuto la vita con i denti per riuscire ad arrivare a casa.

CARLIN — E non ha trovato più nessuno, i suoi erano morti sotto i bombardamenti. Lui allora era andato a stare a Porta Palazzo, dove avevano il banco al mercato... Sapeva di morire, noi lo assistevamo a turno per non lasciarlo solo. Aveva un unico desiderio: al funerale voleva una banda che suonasse i canti partigiani. E un giorno muore. Dovevamo trovare la banda, glielo avevamo promesso. Ma per pagarla non c’era neanche una lira, nessuno ancora lavorava. Alla fine abbiamo trovato questa banda…

I RAGAZZI IN SORDINA COMINCIANO A SUONARE.

Era una bella banda con tanti ottoni, come la voleva lui. Noi abbiamo dipinto uno striscione con su scritto “Mauthausen” e abbiamo fatto questo funerale a Porta Palazzo.
C’era il carro funebre, questa scritta, c’era anche una bandiera, e la banda che suonava “Fischia il vento”...

I RAGAZZI SUONANO “FISCHIA IL VENTO”.

Siamo passati proprio in mezzo al “Balôn” ... La gente veniva fuori e piangeva ... E poi, dopo il Viggiu, se ne sono andati ancora tanti altri.

ENTRA AURORA. TIENE IN MANO UN MAZZETTO DI ERBE.

AURORA — Ah! “Fischia il vento!...”

ORLANDO — E’ una canzone straordinaria!

CARLIN — La cantavamo, in Lager, ci tirava su. Un giorno in baracca mi ero messo a fischiettarla, e mi vedo circondato da un gruppo di slavi che mi guardavano con gli occhi sbarrati. Noi italiani le prendevamo un po’ da tutti, e mi metto sulla difensiva. Invece uno del gruppo mi dice: “Tu conosci questa canzone russa?”.

STEFANO — Io mi ero avvicinato. “Non è una canzone russa — gli faccio — è una canzone dei partigiani!”. “Ma non siete tutti fascisti?”, dice lui. E noi: “Ma che fascisti! Siamo nella Resistenza! E se ci hanno portato qui, è perché siamo contro il fascismo: questa è la prova più evidente!”.

CARLIN — Da quel giorno siamo diventati amici, con gli slavi.
E se c’era da dividere del pane in più, chiamavano anche noi.

AURORA SIEDE E SPARGE SUL VESTITO LE SUE ERBE.

AURORA — Ho raccolto delle piantine medicinali. Ne volete?
La limoncina, che è la melissa... I sarsèt, come diciamo noi, cioè la valeriana... Crescono come dalle nostre parti. Quand’ero qui le raccoglievo, gli toglievo la terra e le masticavo...Lo stomaco doveva avere sempre qualcosa da lavorare ... Cercavo le erbette, e pregavo. Che il Signore si ricordasse di tutti noi.

CARLIN — (stupito)
Tu pregavi?!

AURORA — Sì. Non sono mai stata tanto di chiesa. Ma coi miei vecchi si andava alla messa alla domenica. Io mi dicevo quelle preghiere lì, e me li sentivo vicini.

CARLIN — A me non è mai venuto in mente. Io credevo in certe idee di uguaglianza: ere la loro forza a tenermi su.

AURORA — E se queste idee ti deludono? Resta la preghiera.

CARLIN — Non ti ricordi come vivevamo? Potevo chiedere a un essere superiore, più intelligente di me, più saggio, che salvasse proprio me, se poi un altro veniva ucciso al posto mio? Non sarebbe stata una bestemmia, una preghiera così?

AURORA — Pregare. non è chiedere favori... Con la preghiera, io non mi sentivo più sola, e non avevo più paura.

CARLIN — Sei una compagna che ne ha passate tante, come noi. Ma abbiamo idee differenti.

STEFANO — No, avete soltanto modi diversi di darvi forza.

ORLANDO — (a Stefano)
Ma tu, dentro di te, che cosa pensi?

STEFANO — Le mie idee, non mi sono mai rifiutato di manifestarle. Ma qui è diverso. Non credo di doverne render conto.
UN SILENZIO.
Andiamo a cercare gli altri. E’ ancora chiaro, ma non vorrei che scendesse la notte senza che ci siamo ritrovati tutti quanti.

SI AVVIANO FUORI DALLA RADURA.

SCENA XI

IN LONTANANZA LA CANZONE. BERTO E MARINA ENTRANO DANZANDO.
MARINA RIDE MENTRE BERTO LA BACIA.

BERTO — Come sei bella! Ho voglia di vivere! E di vivere con te!

MARINA — Anch’io Berto! E abbiamo tanti anni davanti a noi!

BERTO — Non dobbiamo sprecarli. Ci siamo lamentati, a volte ... Non ci eravamo resi conto della gravità di quello che è successo, non poi tanti anni fa.

MARINA — Però siamo figli di quei tempi. Le nostre insicurezze forse dipendono da questo.

BERTO — Non lo so... Io non mi buco, per esempio, e neanche tu. Ma tanti lo fanno. E’ un segno di paura.

MARINA — E’ una paura che conosco. In certi periodi mi prende come un senso di vuoto ... Che cosa farò dopo gli studi... Nessuno con cui confidarmi... Violenza dappertutto...

BERTO — La tentazione di bucarmi l’ho avuta anch’io.
Ti ricordi quando siamo andati a quel festival in riviera?

MARINA — Eravamo sicuri che avrebbe vinto la nostra canzone.

BERTO — Invece ne hanno premiata un’altra. Mi sarei messo a urlare dalla rabbia.

MARINA — Ci conoscevamo ancora poco, tu ed io. Ma ti ricordo bene in quell’occasione: avevi una faccia da far paura quando hai saputo il risultato. Poi te ne sei andato di corsa senza dire neppure una parola.

BERTO — Quella sera volevo bucarmi. Sono andato in giro... Non me lo confessavo chiaramente, ma cercavo qualcuno che mi offrisse la roba ... Mentre la gente andava in delirio per quella stupida canzone che usciva dai televisori di tutte le case, io andavo per le strade sperando di imbattermi in quella cosa. Verso il porto c’erano due o tre che spacciavano...Uno mi ha chiesto se ne volevo. Io ero in piena tragedia; adesso mi viene da ridere, perché poi la canzone è andata bene.

MARINA — Ma in quel momento stavi male.

BERTO — Ero sul punto di dire “okay”. Per rabbia, “Faccio una cosa contro tutti...”. Poi ho sentito una sberla al cervello e un voce che mi urlava: “Cazzo! che cosa stai facendo? La vita è tua, a chi credi di far rabbia?! Reagisci e vattene!”. Mi sono tirato su e me ne sono andato. Sono tornato in albergo.

MARINA — E ci siamo poi trovati noi due.

BERTO — Non dobbiamo perderci....
(la abbraccia)

MARINA — Non ci perderemo, stai tranquillo.
(si baciano)

ENTRANO L’UOMO E MARIA.

MARIA — Finalmente! Da ore vado su e giù per la foresta e non ho incontrato nessuno! Soltanto lui...
(indica l’Uomo)

MARINA — (guarda l’Uomo)
Io non l’ho mai visto...

L’UOMO — (sorridendo)
E neanch’io voi.
(fa un inchino di saluto)
Adesso sì.

MARIA — (a Marina e Berto, riferendosi all’Uomo)
Mi ha spiegato tante cose...

BERTO — Allora possiamo farle anche noi qualche domanda?

L’UOMO — (allarga le braccia, sorridendo)
Spero solo di sapervi rispondere ...

BERTO — E’ che volte...io darei la testa nel muro!

L’UOMO — Eh! Addirittura?!

BERTO — I crimini nazisti: ci sono tante situazioni, oggi, nel mondo, che hanno tutta l’apparenza di ripeterli. Vorrei trovare... non so... una chiave... che mi permetta di capire meglio...

L’UOMO — Quello che posso dirti è che i crimini dei lager nazisti sono radicalmente diversi da tutti gli altri. A livello di individuo, la morte, quando colpisce, annienta: a questo può appigliarsi chi parla di uguaglianza. Ma conta anche la crudeltà ... il sadismo ... lo sfruttamento delle vittime in termini economici, senza la minima considerazione della loro dignità umana.

SCENA XII

LA RADURA SI OSCURA, MENTRE ACQUISTA LUMINOSITA’ LA CAVITA’
DEL PONTE.
AVANZA DAL FONDO UN GENERALE SS. PARLA IN TONO DI COMANDO, COME SE AMMAESTRASSE UN BATTAGLIONE.
I RAGAZZI E L’UOMO ASSISTONO DA UNA PARTE.

GENERALE SS — “L’idea razionale razzista ammette
il valore dell’umanità nelle sue originarie
condizioni di razza e riconosce nello Stato
un mezzo per il mantenimento
delle differenze razziali degli uomini!
Ammette quindi che le razze
hanno un valore maggiore o minore.
\ Da questa ammissione l’idea nazionale razzista
si sente costretta a pretendere,
conforme con l’eterna Volontà che domina l’universo,
la vittoria del migliore, cioè del più forte,
e la sconfitta del peggiore, cioè del più debole!
Il fine ultimo dello Stato nazionale
è quello di serbare quegli elementi di razza originari,
che creano la bellezza e la nobiltà
dell’ umanità superiore!
Noi dobbiamo persuaderci che i posteri,
esaminando il nostro operato,
non solo lo capiranno,
ma lo troveranno giusto e lo loderanno!”

APPLAUSI. GRIDA.

— Jawohl!!!

IL TONO DEL GENERALE SS ASSU LA FORZA DI UNA PROFEZIA.

GENERALE SS — Se il partito nazionalsocialista comprenderà di essere il simbolo di fini razziali e umani, acquisterà il trionfo!
La Germania allora si inserirà nel posto che le compete nel mondo.
Una nazione che, nell’era della soppressione delle razze, pensa ai migliori elementi della propria stirpe, deve essere un domani la padrona del mondo!
E’ questo fine che i nostri affiliati non devono dimenticare, se l’ampiezza del sacrificio li portasse a non sperare più nella Vittoria!

APPLAUSI. GRIDA.

— JAWOHL!!!

SCENA XII

L’ALLEGRA MUSICA DI “ROSAMUNDA” INVADE LA SCENA.
IN PROFONDITA’ SI APRE LA BOCCA DEL PONTE, MOSTRANDO L’INTERNO
DI UN FORNO INFUOCATO. DAL FORNO AVANZA UNA CARRIOLA GREMITA DI CREATURE IMMOBILI. GUIDANO LA CARRIOLA DUE UOMINI IN DIVISA A RIGHE. I DUE, ARRIVATI DAVANTI, ABBANDONANO LA CARRIOLA E SI PONGONO AI LATI DEL GENERALE SS, COME GUARDIANI DI UN PRIGIONIERO DI FRONTE AD UN TRIBUNALE.
DALLA CARRIOLA EMERGE UN RAGAZZO CARBONIZZATO, AVVOLTO NEL FILO SPINATO.

IL RAGAZZO RUSSO — Studiavo a Leningrado.
Amavo la pittura.
Sulla Prospettiva Newski fischiettavo
i valzer viennesi...
Nel lager ho deciso di impiccarmi,
ho tagliato la coperta, mi sono appeso alla trave del letto... Mi hanno scoperto,
picchiavano con i bastoni...
Sono scappato fuori,
volevo raggiungere il reticolato...
Le sentinelle sparavano,
ma io sono arrivato al filo spinato,
mi sono ripreso la libertà!...

DALLA CARRIOLA SI ALZA UNA DONNA CHE SI REGGE AD UNA STAMPELLA. HA UNA GAMBA RIDOTTA ALL’OSSO, SENZA MUSCOLI NE’ PELLE.

LA BALLERINA DELL’OPERA — A Parigi ero prima ballerina all’Opéra.
Nel lager mi hanno usato come cavia
per i loro esperimenti scientifici.
La mia gamba un tempo volteggiava
leggera come l’ala di un cigno...
l’hanno ridotta a un osso cancrenoso...
Poi, quando hanno finito il loro gioco,
quattro colpi di badile sul capo
e mi hanno gettato nel forno...

DALLA CARRIOLA SI ALZA UN UOMO COPERTO DI SANGUE. CHIODI GLI TRAFIGGONO IL CAPO RASATO E PESTO E LE MEMBRA SANGUINOLENTE.

L’OPERAIO DI TORINO — Mentre scavavo una fossa, un SS mi ha colpito con il calcio del fucile, mi ero fermato per prendere respiro.
Mi sono ribellato, l’ho colpito anch’io.
Mi hanno torturato. Non un pezzo di pelle è rimasto sul mio corpo, non le unghie, non i denti, non le labbra, non gli occhi…. Non mi ammazzavano, volevano farmi soffrire il più a lungo possibile...
Ero operaio alla Lancia di Torino... Di sera, alla Barca, giocavo a bocce con gli amici ... D’estate, sotto i tigli, le ragazze ci aspettavano per andare a ballare.

DALL’ALTO DEGLI ALBERI SCENDE UN UOMO IMPICCATO A UNA CORDA.

IL TEDESCO POLITICO — Ero tedesco come loro. Ma amavo la gente di qualunque colore e di ogni razza, che pensasse una cosa oppure un’altra purché non danneggiasse suo fratello. Lavoravo al Kommando del Lager, riuscii a far saltare un forno, mi impiccarono sulla piazza del campo.
I compagni tenevano gli occhi fissi su di me; quando lessero la condanna dovettero gridare “Jawohl!”... “Compagni! io sono l’ultimo!” urlai; poi mi strinsero la corda attorno al collo. La terra del lager tremava per l’arrivo dei compagni alleati...

DALLA CARRIOLA EMERGE UN UOMO RICOPERTO DI GHIACCIO.

LO SPAGNOLO DI GHIACCIO — I nazisti stavano perdendo. Io vivevo nei lager dalla guerra di Spagna, il campo non aveva segreti per me. Ci hanno messi in fila, è cominciata la lunga marcia verso il cuore della Germania, lontano dagli alleati che avanzavano. Volevano eliminare i superstiti. Ci bagnavano con le pompe, l’acqua gelava i nostri corpi che diventavano di ghiaccio. In quella morsa, sentivo svanire il calore della vita...

DALLA CARRIOLA EMERGE UNA DONNA MACILENTA. TIENE TRA LE MANI UN FAGOTTO CHE ANDRÀ VIA VIA SVOLGENDO: VESTITINI DI BAMBINI, PANTALONCINI, GIACCHETTE, TUTINE, MAGLIETTE, CAPPOTTINI, ATTACCATI AD UNA CORDA COME PUPAZZETTI. LA DONNA MENTRE PARLA NE TRAE UNA FILA, I CUI CAPI AFFIDA AI DUE PERSONAGGI CHE SI TROVERANNO AI LATI DELLA BOCCA DEL PONTE: LA CORDATA DEI VESTITINI SVOLAZZA SUL VUOTO.

LA DONNA DEI VESTITINI — Io mi ero fatta un sacco con dentro questi vestitini... Ogni volta che ammazzavano bambini, dalla montagna di indumenti dei morti raccoglieva i loro piccoli abitini...
“Se ritorno voglio che vedano - pensavo -, quello che hanno fatto questi mostri che non risparmiano neppure le creature più innocenti...

I VESTITINI PRENDONO FUOCO, SCOMPARENDO IN UN FULMINEO ACCARTOCCIARSI DI CENERE.
I DUE UOMINI IN DIVISA A RIGHE AFFERRANO IL GENERALE SS, LO PORTANO DAVANTI ALLA BOCCA DEL PONTE E LO PRECIPITANO NELLA CAVITA’ INFUOCATA DEL FONDO.

GENERALE SS — ( mentre viene trascinato, fino a quando scompare nel fuoco)
Io ordino al governo e al popolo tedesco
di mantenere in pieno vigore le leggi razziali!
Questo è il mio testamento!

MENTRE SCOMPARE IL GENERALE SS, SCOMPAIONO ANCHE GLI ALTRI PERSONAGGI.
RIMANGONO NELLA RADURA I RAGAZZI E L’UOMO.

SCENA XIV

NELLA RADURA CI SONO SOLTANTO I RAGAZZI E L’UOMO.

MARINA — Avete visto anche voi?

BERTO — Non è rimasto niente!...

MARIA — (all’Uomo)
Come ti spieghi quello che abbiamo visto?

UOMO — Volevate conoscere il nazismo? Forse ci avete pensato più intensamente del passato. Questi luoghi sono pieni di presenze...

IN LONTANANZA SI AVVERTE UNA MUSICA. E’ LA SINFONIA N. 9 IN RE MINORE, OPERA 125 - LA NONA - DI BEETHOVEN.
ENTRANO TRE TEDESCHI: PETER, L’UOMO, CON UN MANGIANASTRI DA CUI PROVIENE LA MUSICA A TRACOLLA; FRANZ, IL RAGAZZO, CHE TIENE SOTTO IL BRACCIO LA CUSTODIA DI UN FLAUTO; MARGARETHE, LA DONNA, C HE HA TRA LE MANI UNO SPARTITO CHIUSO.

BERTO — (ai tre)
Siete del gruppo anche voi?

FRANZ — Di quale gruppo, prego?

MARINA — (a Berto)
Forse sono tedeschi. Non hai sentito come parla?

FRANZ — Siamo tedeschi, sì. Ho studiato musica a Roma, per questo parlo un po’ italiano.
(indica l’astuccio sotto il braccio)
Flauto. Santa Cecilia.

MARGARETHE — Anch’io ho studiato in Italia. Da soprano. E voi, perché siete qui?

MARINA — Un viaggio.
(si interrompe, frenata da un improvviso imbarazzo)

BERTO — (venendole in aiuto senza riuscirci)
Volevamo sapere ...

Maria — (serie, concisa)
In questa foresta, quarant’anni fa, c’era un lager. Ci siamo venuti con alcuni dei superstiti...

PETER INTERROMPE BRUSCAMENTE LA MUSICA, DAL MANGIANASTRI. I TRE TEDESCHI SI RIVOLGONO ALL’UOMO.

L’UOMO — (semplicemente)
Sì, c’ero anch’io.

MARINA — Voi siete tedeschi: che cosa provate a pensare a quell’epoca?

BERTO — Non so se volete rispondere. Ma sento anch’io il bisogno di chiedervelo. Quello che è successo nei lager, non potete ignorarlo.

MARIA — Scusateci. Ma voi parlate la nostra lingua, avete studiato da noi...quindi dovete amare l’Italia e la gente che ci vive…

UOMO — Rispondete. Forse avete aspettato per anni il momento di confidarvi.

MARGARETHE — Io vi dico subito quello che provo. Da piccola vivevo già con questo terribile senso di colpa dentro di me. Mi sono sentita sempre colpevole. Di che cosa con precisione, non so, non ho mai capito. Quando tutto questo è successo, io non ero ancora nata. Ma se io non mi sento come... un insieme con gli altri, io non mi sento viva. Anche la mia scelta di cantare, viene da questo bisogno...

MARIA — Tuo padre ti ha parlato di quei tempi?

MARGARETHE — Oh!, era concertista, mio padre! Loro non gli hanno mai dato fastidio. E’ morto prima che io fossi in grado di fare discorsi seri con lui... C’è stato un periodo in cui ho fatto parte di una associazione evangelica, — “Azione espiatoria” si chiamava —; durante le vacanze andavamo a ricostruire le città distrutte di nostri soldati ... Lavoravo finché non ero sfinita... Tentavo in quel modo di liberarmi della vergogna …

MARIA — La vergogna era degli altri, non tua.

MARGARETHE — Ora va un po’ meglio. Dopo tanti anni... Io canto. Quando riesco a esprimere fratellanza, amore, con la mia voce, per me sono i momenti più belli.

MARIA — Siete venuti tutti e tre assieme...

MARGARETHE — Proviamo un concerto. Siamo nell’orchestra che eseguirà la Nona di Beethoven, la città è appena fuori dal bosco. Ci sono parole, in questa musica, che mi danno felicità.

MARGARETHE MENTRE RICORDA LE PAROLE, TRADUCENDOLE, ACCENNA ALLA MUSICA DI TANTO IN TANTO.
“Gioia...bella scintilla di Dio...noi entriamo ebbri.. di ardore...nel tuo santuario...I tuoi incanti... ricongiungono...quello che la vanità...aveva rigidamente separato... Tutti gli uomini diventano fratelli ... dove la tua dolce ala... si riposa...”.

PETER — Siamo qui, insieme, per il nostro lavoro. Ma abbiamo serie diverse.
(indice i compagni)
Loro sanno tutto di me. Mi hanno aiutato molto, specie nei primi tempi. La musica fa di noi una grande famiglia...
(ride amaro)
Un padre vero, io non l’ho mai avuto. Madre, lo stesso.

BERTO — Non hai conosciuto i tuoi genitori?

PETER — Non come erano davvero. Quando li ho conosciuti, mi è caduto addosso un senso di colpa insopportabile. Non quello storico, universale, come lo prova Margarethe. Ma più tangibile, personale, che mi schiaccia, perché richiede una espiazione che deve compiersi attraverso di me, per quello che loro hanno fatto. I miei bruciano già nell’inferno, sono morti da un pezzo. Ma alle spalle sì sono lasciati me, nato colpevole.

PETER SI AGITA IN PREDA AD UNA SORTA DI DELIRIO.
PARLA ININTERROTANTE, PER SCARICARE UN PESO
TROPPO A LUNGO TRATTENUTO E SOFFERTO.

Mi vengono a prendere mentre dormo. Compaiono nelle loro uniformi a righe. Mi tirano giù dal letto. Mi trascinano fuori dalla stanza. Mi spingono in una gabbia dentro un camion. Il viaggio è lunghissimo, mi sento soffocare. Arriviamo a una baracca scura, piena di urla, di gemiti. Mi cacciano in fondo a una scala, fino a una stanza buia. Mi sbarrano la porta alle spalle ... Lungo la parete c’è una fila di docce. Dai getti esce un sibilo. Respiro a fatica, sento che soffoco. Mi precipito alla porta, tento di aprirla, la scrollo, urlo!... Nessuno mi ascolta, l’oppressione aumenta e diventa insopportabile. Allora mi svegliò... e rimango con gli occhi sbarrati, a pensare a quelli che sono morti così per via dei nostri padri.. (si acqueta; si passa una mano sulla fronte)
Finita la guerra, i miei scapparono in Sudamerica. Nuovo cognome. Nuovo passaporto. Tutto nuovo nel mondo libero! Erano tutti dei loro, in quel paese: biondi e allegri, non c’era cosa che non fosse tedesca, i cibi, la scuola, la birra, gli spettacoli...
Una volta sola, mio padre si è ubriacato. E si è lasciato sfuggire un racconto che non avevo mai sentito: lui tanto buono con me, che mi dava il bacino... che mi teneva lo manina quando avevo la febbre...gli è scappato come era stato terribile quando aveva dovuto sparare ai bambini con la pistola, perché quegli idioti di soldati avevano mirato troppo in alto con la mitragliatrice, avevano puntato all’altezza degli adulti!...e così i bambini avevano dovuto ammazzarli uno per uno. Quella volta ha pianto, nel raccontare. “Che tempi atroci — piagnucolava — grazie al cielo sono finiti...”, ma si sbagliava, non finiranno mai! sono dentro di me! Poi mio padre e mia madre sono andati a sbattere. Di notte, la macchina ha preso fuoco: bruciati vivi. Tutti e due. Lui nel testamento aveva lasciato scritto che voleva essere sepolto al suo paese. Invece no, io l’ho impedito! Niente più ordini, niente più disposizioni!

(si ferma come davanti a un ostacolo, poi riprende con crescente precipitazione)

La notte dei funerali sono tornato al cimitero e ho pisciato sulla tombe. L’ho calpestato, ho pianto, ho urlato. E’ stato il mio saluto. Non sono ritornato mai più.

(fa un profondo respiro, come se si fosse liberato da un peso insopportabile)

Ho letto tutto quello che ho trovato sul Terzo Reich. Dappertutto c’è scritto il nome di mio padre. Che altro posso dirvi? Che mi pesano i vostri morti? Le sofferenze che patite voi come figli, come nipoti? Non mi vorreste come compagno, la mia colpa sta già nella mia nascita.

PETER RIACCENDE IL MANGIANASTRI DA CUI RIPRENDE A FARSI SENTIRE LA NONA DI BEETHOVEN. SI RIPIEGA SU SE STESSO, NASCONDENDO IL VOLTO.

FRANZ — Quando sono nato io, il nazismo era finito de parecchi anni. A quel tempo, mio padre era un ragazzo. Da piccolo, aveva avuto simpatia per il regime, lo sport, le organizzazioni delle gioventù... era stato imbrogliato dalla propaganda: ci erano cascati gli adulti, perché un ragazzo avrebbe dovuto avere più discernimento? Quei fatti, credevo di poterli ignorare. Ma poi, mi sono innamorato di un’ebrea. Anche lei si è innamorata di me.

MARINA — E i tuoi genitori?

FRANZ — Furono comprensivi, avevano paura di perdermi. Mi dissero dì riflettere. “Soprattutto, niente figli!”: la razza mista li spaventava...

MARINA — E lei? Sapeva dei tuoi genitori?

FRANZ — I miei erano gentili, la invitavano a pranzo. Ogni discorso veniva evitato. Ma a poco a poco sembrava che sì convincessero che quelle storie della razza erano delle menzogne. Mio padre si era fatto silenzioso: forse meditava sulle tante morti atroci che quelle menzogne avevano provocato...

MARINA — Sapevi dei lager?

FRANZ — Cominciai a leggerne, dopo aver conosciuto lei. Nei primi tempi non facevo commenti. Poi, a mano a mano che la conoscenza ci confermava nell’amore, commentavamo certo fatti, sentendocene sempre più partecipi, come di carnefice e di vittima. Ma nessuno dei due si calava nel ruolo: li provavamo entrambi, con pari sofferenza, nel desiderio di liberarcene, per affrontare una vita nuova ed esserne responsabili.

MARINA — E...ci siete riusciti?

FRANZ — Siamo andati a vivere assieme. Da quel momento le nostre famiglie d’origine hanno cessato di avere importanza. Abbiamo avuto due bambini. La mia vita è con loro.

MARINA — E i tuoi, non li hai più visti?

FRANZ — Ogni tanto. Nelle feste di compleanno o durante l’estate... Ci sono un’infinità di scuse per non vedersi...
Nel giro di una generazione i purissimi ariani dagli occhi azzurri e dai capelli biondi che erano i miei genitori, sono diventati una coppia di nonni i cui nipoti hanno sangue ebreo. Forse la mia vita con una ragazza ebrea è il mio contributo alla riconciliazione... I miei genitori hanno accettato un’ebrea come nuora, cinquant’anni dopo i lager è un progresso notevole.

L’UOMO SORRIDE CON MESTIZIA.

L’UOMO — Così il tempo scioglie i nodi, se la coscienza è vigile.
Forse non è un caso che ci siamo incontrati in questa radura, così lontana dal nostro ambiente di ogni giorno… Sia voi che loro
(indica i ragazzi italiani)
ricorderete questo incontro. Servirà forse a mettervi in guardia ogni volta che il passato minacci di tornare.

UNA PAUSA.

MARINA — Quando sarà il vostro concerto?

MARGARETHE — Domani sera. Verrete?

MARIA — Non saremo più qui.

FRANZ — Addio, allora.

FRANZ SFIORA PETER CHE E’ RIMASTO CON IL VOLTO NASCOSTO SOTTO IL BRACCIO.
Andiamo?

PETER FERMA IL MANGIANASTRI, NE TOGLIE LA CASSETTINA CON LA NONA, LA PORGE A BERTO.

PETER — E’ soltanto una prova. Nostra e di tutta l’orchestra. Tenetela voi!...

BERTO — (prende la cassettina)
La ascolteremo durante il viaggio. Grazie.

I TEDESCHI SI AVVIANO FUORI DALLA RADURA.
I RAGAZZI SI AVVICIIIANO A BERTO PER LEGGERE LE SCRITTE DELLA CASSETTA. L’UOMO SI ALLONTANA NELLA DIREZIONE OPPOSTA A QUELLA DEI TEDESCHI, FINO A SPARIRE NELLA FORESTA.

MARINA — Che cosa c’è scritto? Magari hanno registrato qualche pezzo che conosciamo...

BERTO — L’unica scritta riguarda la marca della cassetta. E’ soltanto una prova...

MARIA SI ACCORGE CHE L’UOMO E’ SPARITO.

MARIA — Ehi! Se ne è andato anche lui!

BERTO — Sarà qui intorno. Tra poco ritornerà, vedrai...

SCENA XV

E’ QUASI SERA. ENTRANO NELLA RADURA STEFANO, CARLIN, GIMMY, CICHIN, WANDA, LUCIA, AURORA, JOLE E GIULIO E ORLANDO.

JOLE — (ai ragazzi)
Vi cercavamo!

LUCIA — Abbiamo chiamato tanto...

MARIA — E noi andavamo in cerca di voi.

BERTO — Ci siamo lasciati che si ballava “Ci sposeremo a maggio”…

MARINA — Dove siete andati, dopo?

JOLE — Non è facile raccontare. Neanche per me, che quelle cose non le ho passate.

CARLIN SCUOTE LA TESTA. GIMMY SOSPIRA. CICHIN BORBOTTA.

BERTO — Ma che cosa è successo?

CARLIN — (a fatica)
Chi lavorava laggiù, neppure uno è rimasto vivo...

GIMMY — Qualcuno ci è passato, per un giorno...
(fa un cenno a Stefano, perché parli lui)

STEFANO — Parlano della cava di pietra.
(tace anche lui, in difficoltà a proseguire)

CICHIN — Un giorno io ho deciso di andare a vedere. Mi sono messo in una squadra che mandavano laggiù, non so neanch’io come ho fatto... E dopo che l’ho vista, quella cava, sono scappato come dall’inferno.

CICHIN SI ALLONTANA BRUSCAMENTE PER NON CEDERE ALLA COMMOZIONE E SI METTE AD ARMEGGIARE AD UNA SUA RADIO CON ANTENNE E CUFFIA.

STEFANO — Ancora oggi la vegetazione si arresta davanti a quello scavo profondo.

CARLIN — Quando siamo stati lì davanti, nessuno parlava più.

WANDA — Si vedevano ancora i segni lasciati da quelli che ci avevano lavorato.
I colpi di piccone...

GIULIO — Dopo una curva del sentiero, ci siamo trovati davanti quella scala...

ORLANDO — Un muro. Che va su dritto. I gradini, appena dei tagli.

GIULIO — Cercavo di immaginarmi la salita dal fondo.

CARLIN — Centottantasei gradini...Se non arrivavi in cima, ti ammazzavano.

GIMMY — C’era il ghiaccio. Scivolavi. Se cadevi, ti ammazzavano.

AURORA — Mi veniva di pregare.

CARLIN — Se prendevi una pietra troppo piccola, ti facevano tornare indietro.

ORLANDO — Guardavo verso l’alto. Mi veniva il capogiro.

GIULIO — Anch’io stavo male.
(indica Orlando)
L’ho preso per le spalle...ci siamo tenuti su uno con l’altro.

ORLANDO — Così siamo arrivati fino al muro. E con la mano, sulla pietra, ho sentito un contatto... qualcosa che voleva farsi capire...che mi parlava. C’erano dei segni, scalfiti sulla pietra con un chiodo... forse una scheggia ... lasciati da qualcuno!

GIULIO — Musica! Il rigo segnato, poi le note. Una fila intera. Sconnessa, ma chiara, comprensibile!

ORLANDO — Le abbiamo trascritte, quelle note...

ORLANDO E GIULIO COMINCIANO A SUONARE UNA MUSICA DOLCE, QUASI UNA RIEVOCAZIONE DELL’INFANZIA; LA STESSA CHE AI RAGAZZI ERA VENUTA DI SUONARE ALL’INIZIO. ANCHE BERTO SI AGGIUNGE AI COMPAGNI CHE SUONANO, E MARINA CON LA VOCE.

MUSICA —

TOGLIENDOSI LA CUFFIA DELLA RADIO, CICHIN VIENE AVANTI CONCITATO.

CICHIN — E’ morto! Hanno dato adesso la notizia, su una lunghezza d’onda dell’Italia...E’ morto il nostro poeta!...

MARIA, BERTO E MARINA SI GUARDANO TRA LORO.

WANDA — Com’è successo?

LUCIA — Così, all’improvviso?

CICHIN — Era riuscito a sopravvivere — lo diceva sempre — per raccontare...

CARLIN — Sei sicuro di aver sentito bene?

CICHIN — Hanno detto che stava male...che non ce l’ha fatta... Non sono riuscito a sentir altro.

STEFANO — Più di tutti noi e prima, ha superato la difficoltà di parlare di questa esperienza, e ha reso testimonianza.

UN FORTE SUONO DI CLACSON DAL PULLMAN.

JOLE — E’ il pullman, ci chiamano. E’ ora di partire.

TUTTI SIAVVIANO. RIMANGONO MARIA, BERTO E MARINA.

MARIA — Io...sono stata tutto il pomeriggio con lui!

BERTO — Siete arrivati insieme! Vi abbiamo visti...

MARIA — A un certo punto è scomparso. Ve lo ricordate?...

BERTO — E’ stato dopo che i tedeschi se ne sono andati.

MARIA RACCOGLIE, SEIMINASCOSTO DA UN CESPUGLIO, IL TACCUINO AZZURRO DELL’ UOMO.

MARIA — Il suo taccuino! ... Lo teneva in mano ...
(lo apre, legge)
“Negare che comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa”.

BERTO INSERISCE NEL MANGIANASTRI LA CASSETTA DELLA NONA. LA MUSICA SI DIFFONDE NELL’ARIA.

BERTO — Andiamo.

I TRE RAGAZZI ESCONO DALLA RADURA.

 

FINE


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